Lettere. Fiori per il giudice Livatino, mite guerriero che combatteva la mafia
Caro Avvenire,
due giovani sposi agrigentini, Angela Guarraggi e Gianluca Volpe, al termine del loro matrimonio, celebrato nella chiesa Sant’Alfonso di Agrigento il 13 ottobre, hanno voluto affidare il loro bouquet di fiori, che generalmente gli sposi conservano gelosamente tra i ricordi, a un amico con una preghiera: «Deporli per loro sulla stele del Giudice Rosario Livatino». Alberto, questo il nome dell’amico, ha esaudito il desiderio di Angela e Gianluca e commentando il gesto mi ha detto che «appena mi hanno chiesto di deporre il loro bouquet sulla stele del giudice, a stento ho trattenuto la commozione: è stato un gesto di speranza bellissimo». A me, caro direttore, piace leggerlo come un gesto di riconoscimento e gratitudine verso un giudice e testimone credibile che ha lasciato certamente un vuoto nella magistratura, ma continua ad essere luce per tanti. Questo gesto mi ha fatto ritornare alla memoria quanto a tre anni dall’omicidio, monsignor Carmelo Ferraro, vescovo di Agrigento, si chiedeva: «Come mai la figura di Livatino esercita un così irresistibile fascino nelle giovani generazioni e non solo?». «Gli assassini, senza saperlo – concludeva –, anziché spegnere quella luce, hanno acceso un’enorme fiaccola», alla cui luce anche Gianluca e Angela camminano. Mi sento di dire, attraverso le colonne di Avvenire, un grande grazie ad Angela e Gianluca.
Il 21 settembre 1990 alle 8 e 30 il giudice Rosario Livatino come ogni giorno sta recandosi da Canicattì, dove vive, al Tribunale di Agrigento. Sulla Statale 640 viene inseguito e raggiunto da un commando di sicari che lo incalzano per i campi. L’ultimo colpo è di lupara, a sigillare l’esecuzione. Rosario Livatino non aveva ancora compiuto 39 anni. Fin da ragazzo molto studioso, fervente cristiano, impegnato nell’Azione Cattolica, era entrato giovanissimo in Magistratura. I suoi colleghi si erano abituati a vedere sulla sua scrivania un Crocefisso e, accanto ai Codici, un Vangelo sciupato e fitto di annotazioni, ogni giorno consultato. Determinato, infaticabile, in ufficio ogni sera fino a tarda ora, Livatino comincia a vedersi affidate le inchieste più impegnative. Sente forte il dovere di essere uomo di giustizia e insieme di carità, in un rispetto umano profondo anche per i colpevoli. Sente forte l’onere del giudicare, che pesa sulle sue giovani spalle di magistrato. È lui a domandare che gli venga affidata una difficile inchiesta di mafia, perché è l’unico fra i sostituti procuratori a non avere famiglia. “ Sub tutela Dei”, annota quel giorno nella sua agenda, affidandosi a Dio. Ma gli interessi che va a urtare sono molto forti. Lo condannano in pochi mesi a quei sei colpi alle spalle, lui disarmato, lui sempre senza scorta. “Un martire della giustizia e, indirettamente, anche della fede”, dirà di Livatino Giovanni Paolo II nel 1993, in visita in Sicilia. Ma commuove anche il semplice ricordo di un guardiano dell’obitorio di Agrigento, che testimoniò come spesso avesse visto arrivare il magistrato nelle stanze dove giacevano i corpi di pregiudicati uccisi in regolamenti di conti. Uomini di cui il giudice si era occupato, e per la cui anima andava a dire una preghiera. Per Rosario Livatino è in corso la causa di beatificazione. A 26 anni dalla morte la sua figura esercita ancora una grande fascinazione sui giovani cristiani siciliani, quasi un emblema della lotta alla mafia incarnato in un uomo giovane e credente, quasi in un mite guerriero del bene. Per questo quei due ragazzi ad Agrigento hanno voluto lasciare sulla stele dedicata al magistrato il loro bouquet di matrimonio. Come si potrebbe fare con un amico deceduto, con un coetaneo venuto meno in giovane età. Con un compagno più grande, cui si vuole lasciare un segno, a tutti visibile, di una memoria, e di una silenziosa promessa.