Fine vita e guerra: c'è una morte «provocata» prima che assistita
Caro direttore,
a proposito dell’attuale ed ennesima discussione parlamentare sul fine vita, a parte tutte le considerazioni che richiede una normativa così complessa e delicata, perché non si ha la precisione e la sincerità di scrivere chiaramente «morte volontaria medicalmente provocata», invece dell’ipocrita «medicalmente assistita»? Grazie.
Paolo Scappucci, già redattore capo della Radio VaticanaGià, caro Scappucci. C’è una morte che, prima di tutto, è «provocata». In pace e in guerra. E se a nessuno verrebbe in mente di dire che quest’ultima è morte «militarmente assistita», è diventato quasi automatico il ricorso a «medicalmente assistita». Perché? Difficile dirlo. Ma ci provo lo stesso, con timore e tremore, come sempre quando calco la terra del dolore altrui, e cercando di essere consapevole sia del mio limite sia di ciò che dovrebbe contare nella vita delle persone grazie anche alla speranza che la nostra fede alimenta. Ho imparato che, nel migliore dei casi, si cerca un eufemismo da accostare alla morte non per ipocrisia, ma perché si ha umano rispetto di chi è così provato dalla sofferenza da arrivare a invocare e pretendere la propria fine. Nel peggiore dei casi, invece, lo si fa perché non si ha il coraggio di dire – neppure mentre la guerra aperta in Europa torna a ricordarcelo con ferocia – che «sora morte corporale», quando non arriva perché si è ormai «sazi di giorni», è sempre provocata da qualcosa o da qualcuno. Ogni morte dà senso alla vita, così come la vita che conduciamo dà senso alla nostra morte. E una morte irrogata 'a domanda', per legge, può essere compimento, ma non è mai vero dono.