Scalfari. Finché non avremo riposo la morte di grandi e piccoli
Sono stato a Nuoro, ho visitato la casa natale di Grazia Deledda e la chiesa della Solitudine, nella quale riposa. Sono andato, poi, a Orosei, nel santuario della Madonna del Rimedio, lo stesso che la scrittice, Nobel nel 1926, descrive in 'Canne al vento'. Il marito di Deledda, Palmiro Madesani, era di Cicognara, paese del Mantovano, dove don Mazzolari fu parroco dal 1922 al 1932. Dopo una chiacchierata in canonica, il futuro parroco di Bozzolo annota nel suo diario: «Le anime si assomigliano tutte. Come tutte hanno bisogno di un’unica cosa. L’ultima scopaia del popolo, quando parlava su quella sedia o dei suoi figli o dei suoi guai, non aveva una faccia diversa né mostrava un bisogno diverso».
È morto in questi giorni Eugenio Scalfari. Chi sia stato e che cosa abbia rappresentato per il giornalismo e per l’Italia questo intellettuale lo sanno tutti. Di lui, Roberto Saviano ha scritto: «Sono convinto che credevi di avercela fatta a ingannare la morte e poter vivere per sempre. Oggi scopro che non sei immortale... Addio, Eugenio, non ci rivredemo mai più, ma non smetterò di ascoltarti». Deve essere terribile, per chi non crede, rivolgersi a chi non c’è più, senza avere la pur minima speranza che, in qualche modo a noi sconosciuto, costui lo possa ascoltare. È triste interrompere il dialogo con una persona che si stima e si ammira. È doloroso ac- compagnare al camposanto, senza la speranza della vita eterna, coloro che abbiamo amato in questa vita e senza i quali ci sembra impossibile sopravvivere.
Il dolore e la morte restano i due nodi centrali con cui gli uomini, credenti o meno, sono chiamati a fare i conti. Sono le esperienze che ci fanno ridimensionare tutto: i successi e i fallimenti; gli onori e i premi ricevuti e quelli che non ci furono mai riconosciuti. Passa la gloria di questo mondo, insieme alla salute, alla bellezza, alla stessa vita. E poi? Perché fermare la riflessione e arrendersi davanti al muro del mistero? Possibile che non ci sia qualche spiraglio dal quale sbirciare dall’altra parte? Perché non continuare a indagare con l’umiltà di chi sa di non sapere e chiedere aiuto alle schiere di persone che prima di noi hanno calcato la scena di questo mondo? Conviene sempre lasciare la porta aperta di fronte all’abisso che ci si spalanca davanti ogni volta che abbiamo a che fare con le grandi domande della vita. Sono certo che nei dialoghi tra papa Francesco ed Eugenio Scalfari, ricordati da 'Avvenire', una luce si sia accesa nel cuore di ambedue. Chi è il credente? Chi il non credente? Non sono forse compagni di viaggio in questa unica, irripetibile, stupenda avventura della vita? Non hanno entrambi bisogno di tenersi per mano per non cadere? Non hanno il dovere di essere l’uno per l’altro luce e sostegno nel momento in cui più incombe il buio della notte? Chi ha ricevuto di più deve dare di più.
Le barriere che tanti erigono tra le persone non fanno che intrappolarle. Nessuno è così povero da non aver niente da donare. Bisogna trovare il coraggio di indagare il mistero, anche quando si sta pensando ad altro. L’uomo è anche cultura, anche economia, anche politica, anche benessere psichico-fisico, anche relazioni ed emozioni. Anche ma non solo, perché è e rimane mistero a se stesso. Ritorna sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». Prima o poi tutti, l’ultima 'scopaia del popolo' e il Premio Nobel, l’intellettuale - ateo o credente che sia - e l’operaio, i giovani e i vecchi, siamo chiamati a confrontarci con il mistero del dolore che ci piega e della morte che ci annienta. Sono ripartito dalla Sardegna. Stanco per il lavoro svolto e l’estenuante attesa in aeroporto, non vedevo l’ora di arrivare a casa. La meta.
Nessun viaggio – tanto più l’incredibile viaggio della vita – è possibile intraprendere se non si ha una meta. Anche chi parte col solo desiderio di partire ha la sua meta. Nascere per morire, in fondo, non è poi una grande conquista. Il desiderio dell’immortalità, per noi stessi e per coloro che amiamo, è inscritto dentro di noi. Vale sempre la pena di continuare a cercare senza mai alzare bandiera bianca. Chi crede nel Dio di Gesù Cristo ha il dovere di testimoniare la consolazione che c’è nel pregare per la persona scomparsa; preghiera che si fa dialogo, comunione tra noi ancora vivi su questa terra e loro che - in una dimensione a noi sconosciuta - vivono in Dio. È proprio vero, come riconobbe Martin Lutero sul letto di morte, piccoli e grandi: «Siamo solo dei poveri mendicanti».