Si chiama «Tremonti bond» la risposta italiana alla crisi del credito, la soluzione per far ripartire la macchina dei prestiti alle famiglie e alle piccole e medie imprese, la formula per rafforzare le fondamenta delle banche in un momento di alta intensità tellurica. Se questi obiettivi saranno centrati in pieno, o anche solo parzialmente, lo potrà dire solo il tempo. Tuttavia lo strumento promosso dal ministro del Tesoro ha già un valore più ampio rispetto al suo perimetro tecnico: è prova della buona tenuta del sistema bancario italiano, della sua solidità nel confronto internazionale, e allo stesso tempo ha la potenzialità di contribuire, se lo si vorrà, a riscrivere il codice dei rapporti tra 'grandi' banche e 'piccoli' clienti. La missione dei Tremonti bond (con un rendimento iniziale tra il 7,5 e l’8,5% restano prodotti rischiosi e giustamente preclusi ai piccoli risparmiatori) è semplice: accrescere temporaneamente con risorse pubbliche il patrimonio delle banche che lo vorranno e consentire agli istituti di credito di prestare più facilmente il denaro senza rischi per la loro stabilità. Speriamo che così effettivamente avvenga, giacché non è vero che le imprese non bussino alle banche: bussano, ma finora venivano messe in fuga. La riattivazione dei circuiti del credito, come sanno bene le migliaia di piccole e medie aziende del made in Italy, è in questa fase non l’unico ma certamente il fattore più importante per contribuire a ridare ossigeno all’organismo malato dell’economia, a difendere attività e posti di lavoro. A differenza di quanto sta avvenendo nella maggior parte dei Paesi, fino a qui considerati più evoluti economicamente e finanziariamente dell’Italia, l’intervento dello Stato resta opzionale, avviene in modo tutt’altro che invasivo, non prevede alcuna nazionalizzazione e comporta un impegno massimo di circa 10 miliardi di euro da parte del Tesoro. Poco a che vedere, insomma, con le somme stanziate altrove e con le statalizzazioni che si sono rese necessarie in Gran Bretagna, Irlanda, Olanda e (di fatto) Stati Uniti, o con l’intervento diretto nei capitali delle banche avvenuto in Francia, Germania e Belgio. L’'anomalia' italiana è paradossalmente figlia di una tradizione bancaria che meno di altre – in senso relativo, ovviamente – si è lasciata contagiare dalle pratiche della finanza creativa esponendo i proprio organismo agli agenti tossici del mercato. Un discorso che vale più per i piccoli istituti territoriali, il credito cooperativo e nella gran parte dei casi quello popolare, non a caso le realtà che di questi tempi continuano ad assicurare la circolazione del denaro, ma che con le dovute cautele può essere estesa anche a molti istituti maggiori. E tuttavia, se si vuole, il valore più simbolico dei Tremonti bond risiede in quel protocollo che le banche dovranno sottoscrivere con il Tesoro, se vorranno accedere al sostegno. Una lista di impegni nella quale è chiesto di aumentare le somme a disposizione di piccole imprese e famiglie, di prevedere condizioni di credito adeguate allo sviluppo delle attività imprenditoriali, di favorire concretamente le famiglie in difficoltà con il pagamento delle rate dei mutui. E che contempla l’adozione di un «codice etico» tra le cui regole vi è quella di porre vincoli ai compensi e ai bonus attribuiti ai vertici aziendali, comprese le eventuali buonuscite. Una lista di impegni, viene da dire alla luce dei limiti e degli eccessi resi oggi evidenti dall’esplosione della crisi, che permette di considerare l’emissione dei bond e l’accettazione delle sue regole come una dimostrazione di orgoglio da parte di un istituto, più che un’ammissione di debolezza . Il segno che i margini per tornare a fare banca nel senso più alto del termine, comprendere i reali bisogni di un’impresa o le difficoltà di un nucleo familiare, contribuire a sostenere la ripresa dell’economia nei territori, finanziare le migliori azioni per lo sviluppo, non rappresentano un compito marginale, ma possono tornare ad essere la prassi. Con o senza bond.