Opinioni

Tanti bilanci sociali, ma poca attenzione alle famiglie. Figli, l'impresa responsabile non è a impatto zero

Massimo Calvi mercoledì 19 ottobre 2011

Termini come etica e responsabilità sono entrati da tempo nel vocabolario delle imprese italiane. Oggi, a differenza di pochi anni fa, non c’è azienda che si rispetti che non pubblichi anche un bilancio sociale, un rendiconto ambientale o di sostenibilità. Pagine e pagine di buone azioni e buone pratiche nelle quali, tuttavia, quasi mai si trovano informazioni relative alla maternità o alla paternità dei dipendenti. I parametri relativi al consumo di toner o all’emissione di CO2 nell’atmosfera contano più del numero di contratti part-time concessi alle madri, dei congedi parentali riconosciuti, del numero dei figli che quell’azienda ha "permesso" alle sue dipendenti di mettere al mondo o di adottare. Per certi aspetti la cosa non deve stupire. La cultura di massa contemporanea chiede alla produzione di impattare il meno possibile sull’ambiente, non di modificare l’ambiente affinché le persone possano vivere meglio, realizzando le proprie aspirazioni. Un’impresa che installa pannelli solari viene percepita come buona e amica della natura anche se gran parte delle sue dipendenti è costretta a lasciare il posto di lavoro dopo aver accolto un figlio, o anche se a causa di questo viene spinta a rinunciare a ogni prospettiva di carriera. È un fatto culturale, una consuetudine difficile da intaccare. Eppure è anche da questi particolari che potrebbe essere importante ripartire per invertire il ciclo negativo della scarsa fiducia che le generazioni più giovani ripongono nel futuro.In Italia una lavoratrice su due abbandona il lavoro dopo la nascita del primo figlio. C’è chi lo fa per libera scelta, ma spesso questo è dovuto alle pressioni o agli ostacoli elevati dal datore di lavoro, se non alla carenza di servizi nel territorio. La realtà è ancora più drammatica quando si considera che per chi vive la dimensione del lavoro precario parlare di "scelta" rischia di apparire un lusso inarrivabile. O se si tiene presente che il livello medio delle retribuzioni dei giovani sotto i 35 anni – dunque delle donne in età fertile – nelle grandi città, e in assenza di patrimoni famigliari alle spalle, rende necessari due stipendi per mantenersi a fatica sopra la soglia di povertà.L’esperienza insegna che nelle piccole imprese le esigenze di flessibilità rendono con frequenza la tutela della maternità una concessione ad personam, e che è nelle dimensioni ridotte che ricorre più spesso il fenomeno delle dimissioni in bianco fatte firmare al momento dell’assunzione. Ma è giusto aspettarsi che siano le imprese meglio strutturate a dover promuovere un’inversione di tendenza. Non perché la possibilità di conciliare lavoro e famiglia debba diventare un benefit come i buoni pasto o lo smartphone. Ma perché è nei contesti più formali – vuoi per le doti di un azionista illuminato, vuoi per la coscienza degli stessi dipendenti – che può realizzarsi la necessaria svolta culturale. I segnali che in qualche realtà questo stia già avvenendo ci sono, eppure è troppo poco. I direttori del personale che per pigrizia o scarse doti manageriali considerano la maternità come un problema sono ancora la maggioranza. Così come restano  maggioritarie le aziende che prediligono una gestione dei tempi di lavoro nel segno della quantità anziché della qualità e della produttività, creando scontati percorsi di emarginazione. E magari liquidando la partita con la soluzione ad altissima resa d’immagine del nido aziendale.Ribaltare i concetti di sostenibilità e responsabilità può invece orientare le prospettive di sviluppo in una dimensione più ampia rispetto a quella che finora si è sopportato, aiutando a ricostruire quella fiducia che non è solo la crisi economica ad aver intaccato. Per questo potrebbe essere sufficiente chiedere alle imprese di passare dalla logica dell’«impatto zero» a quella dell’«impatto mille». Dove per mille si può intendere tutto quello che intendiamo per futuro. Compresi i bambini.