«Il modello cubano non funziona più, nemmeno per noi». Cinquantun anni sono occorsi a Fidel Castro per ripensarci. Mezzo secolo, da Eisenhower a Obama, dal modello economico di Bretton Woods alla crisi dei mercati globalizzati, dall’inizio della Guerra fredda alla caduta dell’impero comunista, dall’era della radio a quella delle fibre ottiche, passando per il cruciale viaggio di Giovanni Paolo II nel 1998. Cinquantun anni, nel corso dei quali il pensiero del
Líder maximo si rivelava impermeabile alla realtà, a meno che non fosse filtrata dal modello socialista – un irripetibile miscuglio di radicalismo proudhoniano che negava la legittimità della proprietà privata e di nazionalismo in salsa caraibica – la cui ricetta era saldamente nelle mani di Fidel, l’unico autorizzato (da se stesso) a celebrarlo nei suoi fluviali discorsi e ad esportarlo – con scarso successo, per fortuna – nel mondo.Chissà, ci domandiamo, cosa starà pensando in questo momento l’allievo più illustre di Castro, quell’Hugo Chavez che in Fidel ha riconosciuto la guida lungimirante e preziosa nel governare con il pugno di ferro il Venezuela, con cui Cuba ha un forte interscambio commerciale e in comune un congruo numero di oppositori – l’ultimo sulla coscienza di Chavez è un agricoltore cui aveva espropriato le terre – che si lasciano morire di fame.L’abiura di Fidel, tornato inaspettatamente sulle scene dopo quattro anni di sostanziale silenzio dovuto alla malattia e dopo aver ceduto i pieni poteri al fratello Raul, si è consumata sulle colonne del mensile americano
Atlantic Monthly, in una lunga intervista in cui Castro ha per la prima volta ammesso che il modello economico socialista da lui introdotto nel 1959 «non è più appropriato per il Paese».Sorprendente considerazione: Cuba vive un’orgogliosa povertà dall’epoca del
Periodo especial, quando con il crollo dell’Unione Sovietica venne meno la regolare fornitura di materie prime, il debito estero cubano superava i 12 miliardi di dollari e senza quel miliardo di rimesse annue da parte dei cubani esuli in Florida (che quasi pareggiava l’export dell’Avana) la gente non avrebbe avuto di che sostentarsi. E i cubani si barcamenano ancora e sempre fra l’embargo americano, l’esiguo stipendio medio di 20 dollari al mese e il ben più diffuso mercato nero. Con il paradosso – tollerato dal regime – che proprio quel
mercado paralelo (dove si incontrano e si scambiano merci di ogni tipo e natura, compresa, purtroppo, anche la prostituzione) non era altro che la fisiologica reazione del corpo sociale a un modello economico insostenibile. Quello introdotto e predicato da Fidel.Il quale non si contenta di ammettere, nonostante l’imbarazzante ritardo rispetto a illustri colleghi come i dirigenti della Cina popolare, che quel modello è superato, ma si toglie altri inaspettati sassolini dagli anfibi. Ad esempio rampognando il presidente iraniano Ahmadinejad (fino a ieri stretto alleato), che invita a «smettere di diffamare gli ebrei negando la Shoah: non c’è niente che può essere paragonato all’Olocausto», ammonendo sulla pericolosità dell’arsenale nucleare di Teheran, per finire con una sorprendente autocritica sulla crisi missilistica del 1962 («Dopo aver visto quello che ho visto, non penso valesse la pena di uno scontro Usa-Urss»), e all’ammissione di aver perseguitato gli omosessuali imprigionandoli e mandandoli nei campi di lavoro. Mai udito nulla di simile dalla pur fertile bocca del leader cubano.Ci sembra d’indovinare nell’
autodafè dell’ottantaquattrenne Fidel una duplice vanità: quella di riagguantare per un istante il palcoscenico internazionale, ma più ancora forse la voluttà segreta di chiudere il suo lungo regno apponendovi egli stesso il sigillo: «Se c’è un responsabile di tutto – dice con compiaciuta immodestia il
Líder maximo – quello sono io».