Opinioni

Un esempio in un triste caso di cronaca. Fermiamo lo sguardo su quel padre fedele

Marina Corradi giovedì 14 marzo 2019

Nei bar di Prato non si parla d’altro. Una donna adulta, sposata e già madre, intreccia una relazione con un alunno molto giovane. E dal loro rapporto, che vista l’età del ragazzo è per la legge una violenza sessuale, nasce un figlio. Già la famiglia dell’adolescente sa, già in città girano voci. Il test del Dna conferma lo scandalo ormai sussurrato: il figlio, è del ragazzino. Titoli di giornale e telecamere impazzano. Che vergogna, è il commento sulle bocche di tanti, in quelle parole a mezza voce in cui al pettegolezzo si mescola il disprezzo, e appena un po’ di compassione per l’adolescente coinvolto. Certo, che amarezza, che una madre non riconosca che quello che ha davanti è poco più che un bambino, e ne usi, magari approfittando di una sua adolescenziale infatuazione.

Per noi, qui, solo brevi in cronaca senza enfasi e lontano anni luce dai giudizi sommari. Eppure in questa mesta storia c’è un personaggio sui cui vale la pena di fermare lo sguardo, uno che non grida allo scandalo e alla vergogna. È il marito della donna, e padre del suo primo figlio. Quando il test del Dna, implacabile, conferma che il neonato non è suo, non si scompone: «Questo bambino io lo cresco da cinque mesi: è ormai, comunque, figlio mio». Un sussulto di sorpresa forse ha allora colto molti di noi e traversato la città: l’uomo poteva abbandonare la moglie, andarsene di casa, disconoscere con rabbia il nuovo nato. Tutto questo sarebbe stato, agli occhi dei più, comprensibile e giustificato. E invece, lo sconosciuto – pure ingoiando, certo, dolore – non se ne va. Resta con una donna che lo ha tradito, e in quel modo. Resta, come riconoscendo una evidenza più forte di ogni test genetico: quel bambino che credeva suo, che ha atteso per nove mesi, che forse ha preso in braccio alla nascita, bagnato ancora e fragile come un passero, quel bambino è figlio suo. Lo è non per sangue, e nemmeno per la legge che automaticamente dentro al matrimonio lo affermerebbe, ma perché per tutti questi mesi quell’uomo l’ha amato come un padre.

Negli ultimi cinque mesi anche lui si è alzato, la notte, per i pianti e i capricci, anche lui, come fanno oggi tanti giovani papà, lo ha cullato e cambiato e lavato. Perché ha sorriso nel vedere quanta fame aveva, e come cresceva; e come quegli occhi, all’inizio ancora vaganti nelle ombre di un altro misterioso mondo, col passare delle settimane si facevano attenti, riconoscevano i volti, e la bocca accennava un primo sorriso. E: «Ha sorriso, hai visto? Mi ha guardato e ha sorriso». Lo stupore della vita e la tenerezza che si saldano in un anello forte e tenace. Talmente forte, che nemmeno il dolore di sapere di non essere il padre biologico riesce a incrinarlo: per tutte quelle notti e quelle mattine e quei sorrisi e quei pianti, quello ormai è suo figlio.

In una storia triste e un po’ pruriginosa, che attrae commenti malevoli, titoloni e titolacci, è inconsueta la pacata risolutezza di un uomo che non bada alle parole, alle voci, agli sguardi per strada, e passa sopra anche alle colpe e alle vertigini della sua donna. Una generosità nuova, che appena trent’anni fa forse in Italia sarebbe stata impossibile, quando 'padri' si era solo nel sangue e nell’onore, e i figli degli adulteri erano semplicemente 'bastardi'. Bel padre quello di Prato, il solo – forse – a non gridare allo scandalo. E che sarà poi di quel bambino figlio di un altro, ma di un altro così giovane, e nei suoi pochi anni abusato? Potrà davvero essere affidato a sua madre? Ma quel padre che non bada al Dna, ma a cinque mesi di abbracci, io spero che la legge, nei suoi iter complessi e freddi, non lo escluda. Quel figlio di un altro, venuto da un tradimento e da un abuso, è invece profondamente 'figlio' in una paternità fedele, più che al sangue, all’accoglienza e all’amore.