La guerra in Ucraina. Fermare la follia del conflitto senza cinismo, ma per il popolo
Dinanzi alle distruzioni immani e alle troppe vittime, alle file di profughi disperati, alle madri e ai bambini uccisi per strada dalle bombe, ai volti smarriti degli stessi soldati russi prigionieri mandati cinicamente allo sbaraglio da Vladimir Putin non si può rimanere indifferenti. Troppe volte in passato l’Europa ha voltato la testa dinanzi alle stragi e alle sofferenze di chi sfugge ai conflitti. Ed è bene che non lo si faccia ora. Ma un conto sono l’empatia, la solidarietà, la voglia di aiutare l’Ucraina e il suo popolo che mobilitano i popoli del nostro continente, altro le scelte strategiche e le decisioni in campo militare.
La scelta di inviare armi a quel Paese per aiutarlo a difendersi dall’aggressione voluta da Putin è stata sostenuta da quasi tutti i paesi Nato; e c’è chi ritiene che in questo modo si possa spingere la Russia, di fronte alla strenua resistenza ucraina e al rafforzamento delle sue forze armate, ad accettare un rapido cessate il fuoco. Un modo, insomma, per provare a fermare il conflitto rendendolo, nei fatti, più sanguinoso. Ma forse vi è di più e di peggio, in particolare negli ambienti politici e militari statunitensi: perché l’idea che viene sussurrata è che rifornendo quel Paese delle armi adatte, si potrebbe trasformare l’Ucraina in una sorta di Afghanistan europeo per la Russia.
Un calcolo cinico, che guarda più a piegare un avversario geopolitico che ad aiutare un popolo aggredito. Che non impedirebbe l’occupazione, parziale o meno che sia, dell’Ucraina, ma la renderebbe un luogo di guerriglia continua. Quella 'guerra endemica' da cui su queste colonne si continua a mettere in guardia. Forse la Russia non potrebbe reggere un’occupazione di questo tipo. Ma quale sarebbero i costi umani per la popolazione civile? E quali sarebbero i rischi di un nostro coinvolgimento diretto nel conflitto? L’altra 'arma' su cui puntiamo è quella delle sanzioni.
Misure draconiane in campo economico, finanziario e commerciale che puntano a mettere in ginocchio la Russia. Dinanzi alla catastrofe economica non resterebbe all’uomo del Cremlino che ammettere l’errore e ritirarsi. E anzi, come spera qualcuno, ciò potrebbe portare alla sua caduta. Il 'regime change', ossia il crollo di un regime per le pressioni economiche, è del resto una delle tentazioni che Washington ha spesso praticato, per lo più con pessimi risultati. La 'massima pressione' voluta da Trump contro l’Iran doveva piegare l’Iran e, si sperava, far crollare l’odiata Repubblica islamica tramite sanzioni durissime. Ebbene, il regime iraniano ha resistito per anni, nonostante l’impoverimento dei suoi abitanti, mostrando ancora una volta quanto il sistema sanzionatorio colpisca i deboli ma non pieghi autocrati e oligarchi.
Il ministro degli Esteri Wang Yi parla all'Onu a Ginevra il 28 febbraio 2022 - Ansa
Ma la durezza di Washington contro Mosca si spiega anche in altro modo: la vera contesa globale degli americani del XXI secolo, non è con la Russia, ma con la Cina. È Pechino, che si candida alla mediazione nella terribile crisi russo-ucraina, la vera minaccia alla supremazia Usa. E la partita decisiva si giocherà nel Pacifico, non nella vecchia e ormai periferica Europa. Allora, mostrare i muscoli contro il presidente russo serve a mandare un messaggio soprattutto a presidente cinese, sempre più tentato di riprendersi Taiwan, la provincia ribelle che deve necessariamente – nella visione di Xi Jinping – ritornare alla madre patria. Se dinanzi a un’invasione l’Occidente si fermasse alle sanzioni economiche, che deterrente sarebbe contro la smisurata forza economica e finanziaria cinese? No, Washington deve fare di più, per convincere i cinesi a non provarci neppure contro Taiwan. Un calcolo rischioso, perché giocato sui bordi di un’escalation pericolosissima. Ma anche una scelta di spalleggiare l’Ucraina non solo e non tanto per difenderla, ma piuttosto per un calcolo geopolitico all’interno della grande sfida per il predominio mondiale. Papa Francesco lo sta chiedendo con grande forza: si faccia di tutto per fermare il prima possibile la follia della guerra. Sembra difficile rispondere al suo appello quando una parte sembra volere tutto tranne che la pace. Ed è anche arduo e penoso capire quale sia la strada da percorrere, l’antico dilemma se il bene possa combattere il male con le sue stesse armi o se esista un altro modo che non suoni come semplice resa. Gli episodi di resistenza nonviolenta di cui Avvenire continua a scrivere sono una strada difficile eppure solida. Così come impervio è il cammino dei negoziati, ma che deve essere sostenuto con coraggio da tutti i paesi europei, ora che anche la Cina si è esposta per fermare la guerra.
Quello che dev’essere chiaro è, in ogni caso, che i nostri sforzi per aiutare un Paese violato e un popolo ferito devono essere davvero per quel popolo. Un gesto di amicizia, solidarietà, condivisione e di impegno verso una pace rapida e onesta. Non un messaggio in codice ai possibili avversari di domani.