La deportazione e l’eccidio di intere popolazioni religiose in Medio Oriente (Iraq, Siria) e non solo, a opera degli jihadisti dell’Isis, sta provocando fortemente la coscienza del mondo. Di fronte a tanta ferocia su gente inerme – 'colpevole' solo di professare la propria fede e di non assoggettarsi a conversioni forzate – non si può restare inerti. Occorre intervenire per arrestare il massacro. Anche ricorrendo all’uso della forza? La domanda, come ormai tutti sanno, è stata posta dai giornalisti a Papa Francesco, sull’aereo di ritorno dalla Corea. E il Papa ha risposto in linea con l’insegnamento della Chiesa. «In questi casi – egli ha detto – dove c’è una aggressione, soltanto posso dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Fermarlo è un diritto che l’umanità ha». Il Papa si è implicitamente richiamato al criterio – enunciato da Giovanni Paolo II – di «ingerenza umanitaria» la quale, «nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza dei popoli e dei gruppi etnici interi», costituisce «un dovere per le nazioni e la comunità internazionale». E al principio di legittima difesa, così riassunto dal Catechismo della Chiesa Cattolica: «La proibizione dell’omicidio non abroga il diritto di togliere, a un ingiusto aggressore, la possibilità di nuocere. La legittima difesa è un dovere grave per chi ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune» (2321). È sotto gli occhi di tutti l’aggressione, la sua gravità e ingiustizia. Così che intervenire non solo è lecito ma anche doveroso e urgente. Chi deve intervenire? A chi spetta il compito? A evitare interventi abusivi, e con essi nuove ingiustizie, il Papa ha precisato: «Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la seconda guerra mondiale, sono state create le Nazioni Unite, là si deve decidere». Trattandosi non di questioni interne a singole nazioni in cui sono in atto le persecuzioni – nazioni peraltro non in grado di far valere i diritti e difenderli dai soprusi – il diritto-dovere d’intervento spetta alla comunità delle nazioni, il cui organo istituzionale più elevato è rappresentato oggi (pur con le sue inadeguatezze) dalle Nazioni Unite. Nel caso in questione spetta a loro «la responsabilità della vita altrui o del bene comune», nei modi che i loro organi deliberativi possono e devono decidere. Modi che devono sottostare alle clausole di legittima difesa. Questa è tale – sintetizzo dal Catechismo della Chiesa Cattolica (2309) – a condizione che l’aggressione sia effettiva e non presunta: cosa oggi evidente in tutta la sua crudeltà, persistenza ed estensione. In secondo luogo, devono essere espletati i mezzi non violenti e meno violenti di difesa. «I mezzi con i quali si possono fermare gli aggressori – chiede il Papa – dovranno essere valutati», in modo da dissuadere o rendere inoffensivi coloro che commettono ingiustizia con il minor ricorso possibile alla forza fisica e militare. Da ultimo, la reazione difensiva non deve superare la violenza aggressiva. C’è il rischio altrimenti di un’inversione delle parti: da difensivo l’intervento diventa aggressivo, espansivo. «È lecito fermare l’aggressore ingiusto», ha ribadito il Papa. Ed ha subito aggiunto: «Sottolineo il verbo fermare. Non dico bombardare o fare la guerra. Dico fermarlo. Dobbiamo avere memoria: quante volte, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una guerra di conquista?». Dalle parole di Francesco traspare la volontà ferma e sofferta di arrestare le persecuzioni in atto di credenti, cristiani e no. Ma al tempo stesso la viva preoccupazione per un’espansione della violenza, con una reazione militare che inneschi l’ennesima spirale di forza e controforza, portatrice di nuove sofferenze, scontri e divisioni. L’indicazione del Papa è, dunque, un appello alla sapienza dei popoli e dei loro rappresentanti per una prevenzione e risoluzione umana dei conflitti, che sempre più assumono una dimensione transnazionale. Al punto da indurre taluni a parlare di «una terza guerra mondiale», combattuta «a pezzi».