Opinioni

Discriminazione istituzionale in Italia. Ferite aperte da risanare

Maurizio Ambrosini domenica 19 febbraio 2023

Nei giorni scorsi la Commissione Ue ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per discriminazione dei cittadini dell’Unione in materia di Assegni familiari e di Reddito di cittadinanza. I requisiti di residenza fissati dalle leggi italiane (addirittura dieci anni per accedere al Rdc) contrastano con le norme comunitarie. Come ha spiegato Bruxelles in una nota, misure di protezione sociale di questo tipo «dovrebbero essere pienamente accessibili ai cittadini della Ue che sono lavoratori subordinati, autonomi o che hanno perso il lavoro, indipendentemente dalla loro storia di residenza».

Le maggioranze, in genere, trascurano ingiustizie di questo tipo, non essendone colpite, e tollerano pacificamente che siano incorporate in norme di legge che dovrebbero ispirarsi al dettato costituzionale e comunitario. Anzi, a volte le richiedono a gran voce, ritenendo che sia giusto privilegiare gli italiani, magari passando attraverso la formula ipocrita della lungo-residenza. Non pensano, fra l’altro, ai nostri connazionali residenti in altri Paesi della Ue, che pagherebbero un alto prezzo se scattassero delle ritorsioni. Una miriade di misure locali ripete e amplifica questo modo di pensare, inseguendo il consenso della maggioranza (vera o presunta) al prezzo di calpestare i diritti delle minoranze.

Questa condotta ha un nome: discriminazione istituzionale, perché operata da autorità pubbliche nell’elaborazione di norme che regolano la vita delle collettività, in cui tutti, minoranze comprese, dovrebbero ottenere pari diritti. Possiamo definirla come l’insieme di politiche, norme e pratiche derivanti dalle istituzioni pubbliche che sistematicamente avvantaggiano alcuni gruppi (normalmente, la maggioranza) e svantaggiano altri (frequentemente le minoranze etniche e immigrate). Si traducono quindi nella negazione sistematica di risorse e opportunità per i gruppi subordinati, come è avvenuto con le norme contestate ora da Bruxelles. Alla discriminazione attuata mediante leggi e normative locali si sommano, poi, i trattamenti scortesi, i regolamenti incomprensibili a chi non ha un’ottima competenza linguistica, la noncuranza per le richieste di rispetto delle differenze culturali e religiose, le risposte inadeguate ricevute nelle interazioni con gli uffici pubblici.

Una ricerca condotta dal Centro studi Medì di Genova in collaborazione con Asgi, l’Associazione di studi giuridici sull’immigrazione, da anni impegnata in battaglie legali su questi temi, ha posto la discriminazione istituzionale al centro di un’indagine più ampia su come gli interessati percepiscano i trattamenti discriminatori. Tra gli oltre 500 intervistati, sette su dieci hanno fatto l’esperienza di essere trattati con scortesia, e sempre sette intervistati su dieci hanno risposto: «Le persone si comportano come se pensassero che io non sia intelligente». Le discriminazioni si verificano in vari ambiti: nella ricerca di una casa in affitto (problema segnalato dal 40% degli intervistati), nel lavoro (è capitato a un terzo degli intervistati), nel rapporto con gli uffici pubblici (33%), sui mezzi di trasporto collettivi (31%), in ambito sanitario (30%), nei servizi privati (26%) e anche interagendo con le forze di polizia (25%).

I Paesi democratici si sono dotati di apposite istituzioni per lottare contro le discriminazioni nei confronti di immigrati e minoranze etniche. In Italia, purtroppo, non solo i legislatori hanno approvato norme discriminatorie, ma sono anche responsabili della debolezza delle istituzioni che dovrebbero contrastare le discriminazioni, come più volte denunciato a livello europeo e internazionale.

L'Italia in effetti ha istituito nel 2003 l’Unar, Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali, dietro pressione dell’Unione Europea, ma lo ha posto alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, dunque del Governo nazionale, anziché farne un’Autorità indipendente, non lo ha dotato di poteri sanzionatori e di risarcimento delle vittime, gli ha attribuito risorse umane e finanziarie limitate. Gli esecutivi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni non hanno mai pensato di riformarlo. Il ceto politico riflette una società che non sembra rendersi conto di quanto le discriminazioni, oltre a offendere la giustizia, minaccino nel lungo periodo la convivenza pacifica e la coesione sociale. Non è troppo tardi per riparare senza aspettare procedure d’infrazione, richiami e condanne.