Il direttore risponde. Fedeli al Volto, capaci di misura
Caro direttore,
ho appena finito di rileggere la lunga intervista al domenicano esperto di iconografia religiosa che avete pubblicato il 17 gennaio in Agorà. Nel meditare, mi sono domandata se non sia anche il caso di interrogare la fede dei poveri di spirito su un’offesa (forse non intenzionale) al Volto di Cristo, oggetto dell’amore e della devozione di centinaia e centinaia di milioni di fedeli nel mondo. La Sindone, il Volto Santo di Manoppello, la medaglia diffusa ovunque, la testimonianza di santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, per dire le prime cose che – da non accademica – mi vengono in mente... Ora, io sono profondamente convinta che il Volto Santo di Cristo sia troppe volte e ogni giorno offeso nei bambini, negli anziani, nei disabili, in tutti i deboli e i sofferenti e negli ultimi della Terra. Ma il Volto del Signore, che i cristiani ricercano con amore, a volte con disperazione e in qualche caso anche con rabbia, è un Volto Santo. Il Suo, prima di tutti gli altri. Il Suo, perché lo siano tutti gli altri. È il Volto di Nostro Signore Gesù; ci chiede un rispetto sacro.
Non gli possiamo scagliare addosso bombe o liquami, anche se chi lo fa crede che sia un gesto innocente o addirittura religioso. I fatti sono fatti. Le intenzioni o le circostanze, pur importanti, vengono dopo. E l’offesa resta. Oggi viviamo nella civiltà delle immagini e questo ci interroga profondamente su come onorare i primi tre comandamenti, a partire dal secondo, che ci chiede di non nominare il nome di Dio invano. Sinceramente trovo un po’ pretestuosa l’obiezione di chi dice che allora dovremmo togliere Maometto dall’inferno nella Divina Commedia. Ogni opera, per quanto immortale, è figlia del suo tempo e come tale va rispettata e studiata. Discutiamo del 'qui e ora' in cui siamo chiamati, del modo di coltivare il rispetto delle persone, dell’arte e della verità. Siamo immersi in una gran confusione. E anche se sappiamo che non sarà per sempre, credo che i cattolici (almeno loro che hanno la grazia della Chiesa, delle Scritture, di una tradizione certa e un magistero sicuro) abbiano il diritto di essere confermati nella loro fede.
A partire da questo, io penso, e senza voler imporre nulla a nessuno, ogni dialogo è desiderabile e amabile e fruttuoso.
Spero di non averla annoiata. Mi piacerebbe molto conoscere la sua opinione.
Sabrina Cottone
Penso, gentile lettrice e cara collega, che questa lettera dica cose molto vere e molto belle. E che le riflessioni che contiene, provocate dall’intensa intervista di Daniele Zappalà a padre François Boespflug e dal dibattito acceso attorno alla controversa opera teatrale di Romeo Castellucci, possano essere utili. In questa storia è ormai assodato che non c’è (e non c’è mai stato) alcun lancio di «liquami» e, a quanto pare (per motivi di budget o, magari, per ripensamento), neanche di «bombe». In essa però campeggia – come in molte altre storie nel nostro mondo generoso e feroce, volgare e innocente – il Volto di Cristo. E per qualche ambiguità e diversi motivi – non so se secondo le intenzioni dell’autore o ben oltre queste – ha finito per diventare centrale quel nodo del «rispetto delle persone, dell’arte e della verità» evocato opportunamente nella lettera. Comunque la si pensi a proposito della «verità», nessuno può infatti negare che in essa a pieno titolo 'abita' la realtà della nostra fede. Voglio dire che nessuno – teatrante o giornalista – dovrebbe permettersi di ignorare la verità della vita, e dei sentimenti, di coloro che hanno fede in Gesù di Nazaret (magari da poveri di spirito e qualcuno, ormai, da povero di pazienza e purtroppo anche di carità). Voglio dire, insomma, che chi si erge a maestro di tolleranza e giudica irrilevante (o rilevante solo in negativo, per riprovarla) la 'sofferenza' di un credente è quanto meno un arrogante. Dovrebbero rendersene conto i cantori massmediatici di una libertà radicale in tutto tranne che in quel senso della misura e del limite (altro nome del rispetto) che, invece, dovrebbe esserle tenacemente e laicamente caro. Dovrebbero farsene carico quei soloni che – mistificando – preferiscono straparlare e strascrivere (su giornali che magari neanche si accorgono della morte di fame in carcere di un dissidente cubano) di una Chiesa «intollerante» e liberticida, ma non riescono a considerare – figuriamoci a tollerare – la sensibilità e i sentimenti e dei cristiani e, dunque, non accettano che possano essere o sentirsi offesi (forse anche perché quando si è presi da certe ebbrezze e da certi deliri libertari e individualisti si perde la capacità di capire cosa vuol dire essere un 'popolo' che condivide uno stesso cammino e guarda a uno stesso Volto...). Dovrebbero capirlo quelli che – da una parte all’altra del fronte polemico – sono presi dall’ansia della 'messa all’indice' e della 'crociata' e – se né l’una né l’altra arrivano – se le inventano: tutta teatrale pubblicità per i propri retorici eccessi e compiacimenti.
A noi cattolici, che custodiamo il dono dello smisurato e scandaloso sacrificio di Cristo, vengono invece incessantemente proposti un rigoroso e umano senso del limite (che è rifiuto della logica dell’oltraggio e, appunto, rinuncia all’eccesso, ma anche incitamento al confronto e alla limpida testimonianza) e l’affrancamento dalla presunzione (che è astensione dal pregiudizio ostile, e impegno al giudizio motivato e serio). È una delle prove più esigenti alla nostra coerenza. Per questo siamo e restiamo fedeli al Volto Santo, alla «bellezza dell’amore che arriva 'sino alla fine' e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza» ( Joseph Ratzinger, 'Il sentimento delle cose e la contemplazione della bellezza', messaggio per il Meeting di Rimini del 2002). Per questo, cara lettrice e collega, dobbiamo saper essere chiari, restando – qui e ora – aperti al dialogo e capaci di darci e proporre misura.
Marco Tarquinio