Il simbolo dei vitalizi e i nodi urgenti. Aspettando i fatti veri
Passano gli anni, cambiano i governi, ma la sostanza non muta. Le previsioni estive della Commissione europea confermano una realtà amara: l’Italia dovrebbe restare l’ultimo Paese per crescita economica sia nell’Eurozona sia nell’intera Ue per un altro biennio, nel 2018 come nel 2019. Il nuovo rapporto giunto da Bruxelles rende evidente un’incongruenza radicata nel dibattito politico nazionale e che più di qualcuno pare essersi scordato, specie dopo le elezioni del 4 marzo: il problema numero uno del Paese resta lo sviluppo, e quindi il benessere dei suoi cittadini. È qui che si attende un’impronta energica del nuovo governo, per ora "distratto" da altri argomenti certamente importanti, a vari livelli, ma non così urgenti: ora la questione immigrati, eternamente riproposta da Matteo Salvini come lancinante priorità quando forse non lo è mai stata e certo non lo è più, ora il tema dei vitalizi parlamentari. Proposto, ieri, in singolare concomitanza con il rapporto Ue, con il vicepremier a 5 stelle Luigi Di Maio impegnato a dire che questo «è il giorno che gli italiani aspettavano da 60 anni». Più umilmente vorremmo aggiungere che, forse, il giorno che gli italiani, individui e famiglie, attendono da ormai troppi anni è anche quello in cui vedranno questo Paese fare buon uso delle ingenti risorse di cui dispone per dare pieno impulso a una crescita sostenibile e garantire il benessere dei cittadini.
Non si tratta di "benaltrismo". Il fatto è che l’Italia vive da troppi anni in questa condizione. Mantenere la più bassa crescita porta con sé effetti tutt’altro che secondari: siamo l’unico Paese che non ha ancora recuperato il livello pre-crisi del 2007 e il terzo, fra gli Stati Ocse, per più alto livello di disoccupazione, con tutte le conseguenze sociali che questa situazione genera, specie al Sud. Il ristagno della domanda interna, per consumi e investimenti, ha causato un crescente attivo della bilancia commerciale (l’export per fortuna sta reggendo) e di quella dei pagamenti, che non si traduce però in un aumento del benessere diffuso fra la popolazione.
Ecco, allora, che ogni giorno che passa accresce un rimpianto davanti all’azione del governo: è sul piano economico, infatti, che si attende un impulso forte dal nuovo esecutivo giallo-verde, più che su altri terreni. È vero che il primo provvedimento adottato – e non ancora varato definitivamente – è stato il "decreto dignità" in materia di lavoro: importante anche per la parte finalmente relativa al contrasto al dilagare dell’azzardo, ma che nel difficile equilibrio fra precarietà (da disincentivare) e flessibilità (in parte necessaria) non pare essere ancora risolutivo. I segnali venuti nei primi 42 giorni dalle stanze del governo sui fronti economici non hanno stimolato "entusiasmi" fra le imprese, né segnalano per ora svolte per i cittadini. Archiviati i toni baldanzosi della campagna elettorale, mentre i ministri faticano a comporre in armonia voci e intenzioni, tutto viene rimandato per ora alla Legge di Bilancio, ma più ancora a un confronto con l’Europa di impervia gestione. Non va trascurato, in questa chiave, il richiamo giunto ieri dalla Corte dei conti europea, che ha imputato alla Commissione Ue di aver chiuso troppe volte un occhio sui conti italiani.
C’è più fumo che sostanza, insomma, nel messaggio al Paese e all’Europa giunto finora dalla nuova e difficile maggioranza.
La stessa enfasi posta ieri pomeriggio nei festeggiamenti in piazza Montecitorio, con tripudio di palloncini gialli e brindisi, per una mossa – la delibera sui vitalizi, già riformati peraltro, e senza feste, dal governo Monti – certo valida sul piano simbolico, ma non determinante. Peraltro la via scelta non ha sciolto il nodo vero: sarebbe stato meglio intervenire per legge ordinaria su una materia che incide su diritti previdenziali in godimento, anche se finora sempre regolamentata per tradizione proprio con delibere. Si sarebbe indebolito così il fronte dei ricorsi degli ex deputati e dei loro coniugi superstiti.
Come sarebbe stato meglio, per ridurre le disparità, operare un distinguo fra quanti hanno oggi il vitalizio come unico trattamento previdenziale esclusivo e quanti godono comunque di un altro assegno, maturato magari negli stessi anni in cui stavano in Parlamento. Ora (ricorsi permettendo) si continuerà a cavalcare la battaglia in Senato. Nell'attesa che si cominci ad affrontare la 'guerra' che il Paese deve combattere: quella degli investimenti che languono, dei servizi che arretrano, della bassa produttività e dell’efficienza con cui si impiegano i lavoratori, degli ostacoli frapposti dalla burocrazia. Cambiamento è soprattutto questo. È bene ricordarsene.