A mezzanotte precisa di ieri, dopo sette mesi, l’ombrello protettivo della Nato ha virtualmente cessato di operare nella Libia liberata dal giogo quarantennale di Muammar Gheddafi con la sospensione della no-fly zone e del blocco navale attorno alle sue coste. La Nato dunque se ne va. E nel tirare le somme di questa guerra combattuta dal cielo dalle potenze occidentali e vinta sul terreno dagli insorti libici (e dai servizi segreti), si aggiustano molti frettolosi giudizi, fra cui quello che finora ha relegato l’Italia a un ruolo marginale. È lo stesso
Washington Post a riconoscere come il nostro Paese sia stato grande protagonista sul piano diplomatico e anche su quello militare durante tutta l’operazione "Unified Protector", a stretto contatto con il segretario di Stato americano Clinton e con un ruolo chiave «nell’impedire alla Francia di estromettere la Nato e di far fallire sin dall’inizio l’operazione». Ma la guerra vinta sul campo, come ben sappiamo, non è affatto una polizza sul futuro. Non a caso il primo segnale che la cronaca registra alla vigilia del suo primo giorno da Paese sovrano – per quanto minuscolo e forse insignificante rispetto al futuro che la Libia deve sapersi costruire – non è dei più incoraggianti: scontri a fuoco a Tripoli fra membri delle varie brigate, e sotto traccia una silenziosa ma potenzialmente feroce spartizione delle aree di influenza fra le varie fazioni e le tante tribù. Poco importa che la notizia del ritrovamento dell’arsenale atomico di Gheddafi fosse falsa (solo scorie radioattive, alla fine, o forse briciole di armi chimiche), dovuta – sembra – all’immancabile errore di traduzione, onnipresente in questi casi. Ciò che conta è il domani del Paese, con la mole immane di problemi irrisolti e soprattutto con una società da costruire
ex novo, più che da ricostruire. Concezioni per noi indiscutibili come democrazia, Stato di diritto, uguaglianza di fronte alla legge, doveri dei cittadini, diritto di voto, libertà di espressione, tutela delle minoranze sono tutte novità in una nazione narcotizzata da quarantadue anni di rivoluzione verde, dove il sessanta per cento della popolazione è composto da giovanissimi e il restante quaranta non ha ricordo né cognizione di niente che assomigli a una società moderna e libera. In un certo senso, la Libia ora è davvero sola. Sola con un territorio immenso e impossibile da controllare; sola con un numero altissimo di armi automatiche in circolazione, fornite da Francia, Egitto, Qatar, Cina e altri interessati donatori; sola con le stesse fazioni e le stesse inimicizie che grande parte hanno avuto nello snodarsi del conflitto. I cirenei Senussi di qua, con i loro giacimenti petroliferi e quarant’anni di rancori; i Warfalla di là, con il ricordo acuto del rais e dei suoi ultimi giorni; i Tuareg a Ovest, in un mosaico etnico-tribale che Gheddafi teneva incollato assieme con spregiudicatezza e crudeltà: una mano donava, l’altra metteva ai ceppi, una vellicava i vizi capitali dei libici, l’altra li torturava o li faceva sparire. Non sappiamo immaginare come faranno il Consiglio nazionale di transizione e soprattutto i suoi leader, l’ex ministro gheddafiano Jalil e il nuovo premier eletto proprio ieri, a traghettare la Libia dal dispotismo del rais alla pacifica convivenza di una democrazia moderna. Non sappiamo nemmeno quale parte avrà la sharia, la legge islamica, nella Costituzione che verrà, e nemmeno quanto concorrerà il fondamentalismo religioso nelle scelte del governo, quale influenza potrà esercitare il radicalismo antioccidentale, quali fuochi potranno accendere i salafiti e al-Qaeda soffiando sul malcontento che inevitabilmente sboccerà fra coloro che verranno messi da parte, fra i tanti che perderanno diritti e privilegi accumulati negli buoni del regime. «Fatta la Libia – direbbe oggi Massimo D’Azeglio – bisogna fare i libici». E questa è la guerra vera da vincere. E nessuno può sapere quanto durerà.