Fine vita. Fareste a pezzi un dono? Confrontarsi con la deriva mondiale dell'eutanasia
Lentamente, ma anche (così almeno sembra) irresistibilmente, aumenta il numero degli Stati che introducono nei loro ordinamenti giuridici legislazioni aperte all’eutanasia o almeno ad alcune sue possibili varianti. Aumentano pure i dibattiti parlamentari in materia, che anche quando si concludono con un 'no', dimostrano comunque incertezze politiche e partitiche meritevoli di riflessione; ed aumentano, infine, le discussioni 'ideologiche' su questo tema così lacerante, discussioni che però sembrano perdere virulenza e passionalità per trasformarsi, con una certa ma indicativa lentezza, in forme di sereno confronto, che, a giudizio di alcuni, sembra anche ormai assumere un carattere inevitabilmente scontato.
Gli argomenti contro un’apertura all’eutanasia sono cristallizzati da decenni, anzi da secoli: a parte l’argomento religioso (dotato ancor oggi di una sua indubbia forza, circoscritta però al solo ambito dei credenti) continua a possedere un suo vigore l’argomento di chi prova ripugnanza nei confronti di una legge dello Stato che gestisca la morte come un evento meritevole di essere regolamentato in forme, alla fin fine, burocratiche.
È interessante rilevare come questa ripugnanza trovi poi diverse forme di esplicitazione, alcune molto diffuse (come quelle che fanno riferimento alle sofferenze di tanti malati terminali, ritenute, a torto, non suscettibili di palliazione medica), altre più sofisticate, ma che sembrano capaci di sempre maggiore diffusione, come quelle che si appellano a una ipotetica e 'democratica' libertà di scelta tra vita e non vita, che dovrebbe essere riconosciuta a ciascun cittadino come suo diritto umano fondamentale, indipendentemente dalle ragioni cui egli si voglia o si possa appellare.
Né si può trascurare il tema, terribilmente insidioso, di come gestire vite ormai carenti di 'dignità'; tema insidioso, perché conduce inevitabilmente a quello della legittimazione, ancor prima dell’eutanasia, della pena di morte, oggi quasi universalmente rifiutata, dato che sulla dignità della vita di molti criminali efferati sembra davvero difficile dubitare. Potremmo continuare a lungo, elencando altri argomenti più o meno diffusi o condivisibili. Una cosa, però, va sottolineata: quelli che ho citato sono tutti argomenti che si 'intrecciano' faticosamente e pur volendo tutti condurre a una conclusione fondamentalmente univoca (sì all’eutanasia) sembrano privi di una forza intrinseca, capace di 'compattare', per dir così, l’opinione pubblica, su progetti normativi univoci. Se come pratica sociale 'privata' l’eutanasia suscita compassione, angoscia, tristezza e infinita malinconia, come pratica legalmente formalizzata fa sorgere dubbi, sospetti e in molti casi, come ho già detto, ripugnanza.
È questo il nodo centrale della trama dell’ultimo romanzo scritto da Anthony Trollope, The Fixed Period ( Il termine fisso, del 1882), nel quale il grande romanziere vittoriano (che molti non a torto parificano a Dickens) ipotizza che in una lontana (ma civilizzatissima) colonia asiatica inglese (Britannula) venga introdotta con ampi consensi e per legge un’eutanasia obbligatoria (dunque, senza eccezione alcuna) per tutti i cittadini che avessero superato i sessantacinque anni, per garantire una volta per tutte il carattere assolutamente democratico della società e nel contempo per eliminare definitivamente i faticosi e sterili dibattiti sul tema della fine della vita umana e sul momento ottimale per realizzarla.
finisco Non dirò nulla sulla conclusione del romanzo, anche perché merita di essere letto, ma voglio solo richiamare l’attenzione su come esso mostri, sia pure solo narrativamente, il carattere non democratico del tema della libertà di scelta, che oggi sembra sempre più imporsi nella pubblica opinione.
La verità è che non solo la vita in generale, ma la nostra stessa vita ci appare come un enigma, che nessuno sembra in grado di sciogliere e che la scelta (sia quella individuale sia quella sociale) a favore della morte ci porta con durezza di fronte alla domanda più radicale che un essere umano possa porsi: quella sulla propria identità, che, ci piaccia o no, è una identità unica e irripetibile. E poiché la nostra identità ci è data (per quanto noi si voglia, e a volte si possa, anche in qualche misura alterarla), distruggerla o comunque condurla alla fine appare tragicamente simile al comportamento di chi, avendo avuto un dono, lo fa a pezzi, anziché renderne grazie.
Filosofo del Diritto, Università di Roma Tor Vergata