Opinioni

No alla riduzione a «materasso» degli istituti di credito. Fare buona banca al tempo del «bail in»

Pietro Cafaro venerdì 8 luglio 2016
No alla riduzione a «materasso» degli istituti di credito È difficile ricondurre a logica razionale quanto in Europa si è fatto e si sta facendo per far fronte a una crisi strutturale inaspettata e travolgente. Esempi di diversa portata, la vicenda del Mps, la questione dei crediti deteriorati, ma anche la polemica su qualche banca tedesca ben provvista di titoli derivati, possono confermare quella che è più di una sensazione. L’Unione bancaria, messa in cantiere qualche anno fa per dar vita a un sistema di tutele su scala continentale (quindi per socializzare in modo più efficiente rischi e benefici) è divenuta ad esempio l’alibi per contrabbandare i mai sopiti fantasmi del nazionalismo e dell’individualismo più radicale.  L’elemento più appariscente sta nella ormai palese volontà di non dare vita a forme comunitarie di garanzia dei depositi, e alla battaglia senza quartiere per far sparire ogni forma possibile di bail out, cioè di salvataggi delle banche dall’esterno, anche con denaro pubblico. Il bail in, o salvataggio dall’interno dell’istituto bancario anche con l’utilizzo del denaro di depositanti e obbligazionisti, nella sua forma più elementare (quando cioè non è mitigato da forme sistemiche di tutela) è ritorno all’individualismo più stretto, alla nazione contro nazione: una paradossale forma di risoluzione a priori delle crisi che, di fronte ad avvisaglie di difficoltà (e non quindi a fallimento dichiarato), sacrifica il singolo, per la stabilità collettiva.  Esattamene l’opposto di quanto avvenuto, almeno in Italia, da quasi cent’anni a questa parte. Questo riposiziona le lancette dell’orologio alle discussioni d’inizio Novecento, quando si dibatteva se l’impresa bancaria (attività economica del tutto particolare) dovesse, per la propria stabilità a beneficio dell’economia, essere considerata di “interesse collettivo e sociale” o meno. Ora, il bail in, se privo di forme comunitarie di tutela, è un formidabile strumento di conservazione e rischia di spegnere quella ancora flebile fiammella di crescita che sembra apparire all’orizzonte.  Gli investimenti presuppongono ovviamente un rischio, grande o piccolo, rischio che è principalmente assunto dall’imprenditore, ma che non può non essere in parte pur minimale condiviso dalla collettività. Il banchiere, soprattutto da noi, ha sempre svolto (se debitamente vigilato da chi di dovere) la funzione nobilissima di incanalare risparmi privi di propensione al rischio, verso investimenti produttivi. A lui è stato demandato storicamente il compito sia di tutelare i risparmi che di individuare il soggetto meritevole di credito e non solo sulla base delle garanzie offerte, ma anche dietro valutazione del progetto industriale. Nel tempo si sono sviluppate reti sistemiche che, sulla base di una crescente biodiversità degli istituti di risparmio e di credito tra loro interconnessi, hanno diversificato, attenuato, ma anche socializzato i rischi. Il bail in puro, invece, schiaccia il banchiere sempre più sul versante della conservazione: la necessità esiziale di raccogliere risparmi non più tutelati da forme di garanzia collettiva lo spingerà a evitare come la peste il sostegno ad investimenti fortemente innovativi. La banca, novella cassa di risparmi sempre meno retribuiti, rischierà di sostituirsi al classico materasso.  Purtroppo anche il ricorso al “sistema”, l’unico metodo storicamente assodato per attenuare il bail in e produrre efficienza, socializzando i rischi all’interno del mondo del credito, sembra non riscuotere sempre interesse. Il Fondo Atlante va in quella direzione, ma sorprende la posizione espressa dai vertici della Banca d’Italia sui limiti da porre alla federazione delle Bcc nella riforma ancora in fieri del Credito cooperativo. Riforma che peraltro l’istituto centrale ha seguito con grande attenzione e partecipazione, e che rappresenta uno dei rari recenti esempi di innovazione concreta in ambito creditizio. Si utilizza, infatti, uno strumento sistemico elastico (ben diverso quindi dalla costosa ingessatura prodotta negli anni ’30 del secolo scorso) per attenuare e diversificare la filiera del rischio: un patto di coesione volontario e paritetico di soggetti bancari garantiti dai propri patrimoni, da quelli dei sodali nel patto stesso e da una struttura partecipata di vertice.  Tale organizzazione complessa, esige un coordinamento diverso da quello di un gruppo bancario ordinario perché il contratto stretto da istituti autonomi dotati ognuno di un patrimonio proprio e titolare di una propria licenza bancaria, non è e non deve essere di mera subordinazione tra vertice e base. Il “gruppo bancario cooperativo” non può essere un “gruppo bancario” tout court. I soggetti sono i contraenti di un patto “federale”, tanto più forte quanto più coeso, l’unica forma (inedita) possibile se si vogliono mettere assieme i vantaggi dell’autonomia locale con la sicurezza del gruppo. Va da sé che la guida non possa essere solo tecnica, ma anche, in senso lato, “politica”: la struttura associativa non può quindi limitare il proprio ruolo a quello di mera rappresentanza sindacale. A meno che si voglia, in nome della semplificazione, far rientrare dalla finestra quanto era stato messo alla porta.