Meritocrazia. Il senso teologico del far fruttare i «doni» ricevuti
È nota ai più l’ultima struggente pagina del capolavoro di Gegorges Bernanos, “Il diario di un curato di campagna”. Questo “piccolo parroco” di Ambricourt, prostrato da un male esterno ed interiore, fisico e metafisico, morale e spirituale si ritrova, ormai sopraffatto da un cancro e morente, nella casa dell’antico compagno di seminario ed ex prete. A lui chiede l’assoluzione dei peccati. E dinanzi al senso di indegnità rivelato dall’amico, il protagonista del racconto pronuncia le sue ultime parole: « Che cosa importa? Tutto è grazia ». Sono il suggello di una vita tormentata, ma riletta come il passaggio ininterrotto della grazia di Cristo. Anche a proposito di queste note parole, come di tutto il romanzo, vale il giudizio formulato da Ferdinando Castelli: «Bernanos è una tempesta di fede cattolica. Tanto che, senza di essa, la sua opera cessa di esistere, riducendosi a un non-senso, a un futile gioco, privo anche del sapore mitologico».
Tali parole sono in effetti una piccola porta d’ingresso nella fede cristiana. Lo sono per la capacità di mostrare come il tutto di un’esistenza, anche ciò che va sotto il segno della sconfitta e del fallimento, può sempre essere letto dal credente quale passaggio silenzioso di una Presenza di dono. Lo sono, ancor di più, per la capacità di evocare il principio e il cardine del cristianesimo e della sua visione del mondo e della storia: all’origine c’è una grazia immeritata, un dono, così radicale da essere a fondamento del nostro stesso essere ed esistere di uomini. Siamoin forza di un dono gratuito; e il compimento del nostro essere uomini è ancora sempre all’insegna dell’attesa gratuita di un dono che proviene dal Padre di Gesù Cristo. Se volessimo esprimere in maniera più concreta e meno formale tale “principio grazioso”, dovremmo dire che a fondamento di tutto c’è Gesù Cristo, la Grazia in persona. È in Lui ed in vista di Lui che è stato creato il mondo ed ogni uomo. Ed è questo a costituire anche il fondamento del vincolo strutturale che lega ogni singolo uomo a tutti gli altri, in un legame di fraternità. Come diceva Rahner, l’uomo – ogni uomo – è il possibile fratello di Gesù Cristo. Pensarci come voluti a motivo del fuoriuscire gratuito di Dio in Gesù Cristo, ci fa percepire come legati da un vincolo ugualmente gratuito a Dio e a tutti gli altri uomini, nostri fratelli.
È a partire da questo orizzonte che anche la riflessione teologica può offrire il suo contributo ad un ripensamento della pertinenza dell’idea di meritocrazia: trovando delle consonanze profonde con quanto, con maestria, è già stato scritto su queste colonne da Luigino Bruni e Paolo Santori, Vittorio Pelligra , Andrea Lavazza . Si può anche riconoscere la plausibilità dei motivi che possono aver indotto a trasformare la meritocrazia – come rilevava Pelligra – da distopia, ovvero da realtà indesiderabile e da evitare, ad utopia, ovvero realtà agognata e salutare. Non sono infatti certamente auspicabili una società o uno Stato nei quali l’accesso al potere, al kratos (che compone il termine in questione), a qualunque livello della vita sociale se ne parli, sia dettato da logiche clientelari, da “conoscenze”, da favori e, in definitiva, dalla perversione di ciò che è autenticamente dono e gratuità. Perché non è certo del dono autentico che parliamo, quando lo concepiamo quale realtà che offende la giustizia, o non onora il rispetto della dignità di ogni singolo uomo e di tutti gli uomini! D’altro canto, è persino auspicabile che laddove siano necessarie competenza e preparazione perché si realizzi il bene comune, si possano scegliere le persone più adatte ed idonee. Nessun uomo di buon senso, per fare un semplice esempio macroscopico, vorrebbe essere curato in caso di malattia da un medico che occupa quel posto in forza di una raccomandazione e non di una solida preparazione, né desidererebbe essere ricoverato in un reparto di ospedale nel quale il primario è assurto a quel ruolo per logiche clientelari e gestisce il reparto secondo logiche analoghe. Allo stesso modo in cui nessuno, che abbia a cuore l’esistenza stessa di una società, potrebbe auspicare che a governare una città, una regione o una nazione ci siano persone inadatte e incuranti del bene comune.
Ciò che va fortemente messo in discussione della ideologia meritocratica, divenuta imperante, è tuttavia il sottinteso che le competenze e il ruolo assunto siano il semplice risultato di meriti ottenuti, con tutte le conseguenze che questo comporta: come la separazione tra esseri umani che sarebbero meritevoli ed altri che sarebbero invece immeritevoli, a tutti i livelli della vita sociale; o come l’idea perversa che, per il bene di una società, alcuni ruoli sarebbero centrali e altri meno e, più radicalmente, alcune persone avrebbero un valore mentre altre no. Quanto non rende ragione della realtà è il mito, tipico di certa modernità avanzata, dell’uomo che si è fatto o che si fa da sé. Quel che è già stato rilevato da chi è intervenuto in precedenza sul tema in questione trova nuove sottolineature a partire da uno sguardo teologico: c’è sempre una grazia che ci precede, in senso verticale e in senso orizzonta- le. Tutto quello che siamo e abbiamo potuto diventare affonda le sue più profonde radici in ciò che abbiamo ricevuto e continuamente riceviamo: a cominciare dalla vita per arrivare a tutto quello che gli altri, tutti gli altri, ci permettono di essere.
Questo significa che non si possa in alcun modo parlare di merito umano? Forse lo si può fare nella prospettiva in cui lo ha fatto, ad esempio, il concilio di Trento nel dialogo con la Riforma: nel senso, cioè, della risposta libera ad una grazia, che è sempre antecedente, più radicale e che addirittura sollecita una cooperazione; e nel senso, dunque, della sinergia con cui l’uomo fa fruttificare, investendo la sua libertà, i doni che incessantemente riceve e lo fanno esistere. Quanto ciascuno riceve, a cominciare dalla vita, è realmente gratuito e immeritato. Ciò non toglie che si tratti di una gratuità che invoca una libertà che vi corrisponda ed implichi il concorso del soggetto per compiersi. Nel linguaggio cristiano, si parla di carisma, che è sempre all’incrocio tra la charis, la grazia appunto, e quel che il soggetto mette di suo per corrispondervi.
Se è così, se ne può trarre qualche seria conseguenza sul tipo di kratos, di potere, di cui si può venire investiti. Esso è davvero all’altezza della nostra umanità e di quel che siamo, per grazia, solo se è volto a suscitare sempre la libera partecipazione degli altri, la loro corresponsabilità, la messa in atto di tutto quanto è in loro potere di fare: dunque, se si esercita in una prospettiva di autentica reciprocità. Esso è reale, nella misura in cui chi lo detiene conserva la memoria di essere all’incrocio di mille doni e di rapportarsi ad altri, che sono essi stessi un dono per lui. Esso non diviene mai prevaricazione, se è attivazione e cura del modo in cui anche l’altro può essere attivo e propositivo. Non è forse inutile dire che, per dei cristiani, la prima grande palestra di un tale modo di “vivere insieme” dovrebbe essere quella specifica società che si chiama Chiesa. Così come può non essere vano ricordare che tutto ciò potrebbe costituire anche un valido antidoto a modi distorti e, in fondo, disumani, di concepire la carità: quella che non promuove colui a cui si dirige e non mira ad attivare tutto quanto è in suo potere di offrire, perché volta a sancire un’esclusione sociale quale dato irreversibile.