Covid-19. Facciamoci trovare pronti (sapienza è usare i limiti)
Che cosa sono per il poeta il metro e la rima? Dei vincoli, dei limiti. Sono un carcere in cui volentieri il poeta si rinchiude per meglio sprigionare la creatività. Per questo a nessuno dovrebbe essere permesso di scrivere 'versi liberi' se prima non sia misurato con i 'versi incatenati'. Solo nei vincoli del pentagramma il musicista crea. Altrimenti emette rumori, non melodie.
Così noi siamo oggi. Chiusi nel perimetro delle nostre abitazioni, limitati nei movimenti; e soprattutto con quella colossale palla al piede che è la paura. I nostri limiti e la nostra paura rischiano di diventare il nostro pensiero unico. Non pensiamo ad altro, non parliamo né scriviamo di altro. Basta ascoltare le rare parole scambiate tra vicini da una finestra all’altra, da un balcone all’altro, per i più fortunati da un giardino all’altro. Basta visitare i social network. Basta ascoltare un telegiornale. Quello lì, il morbo famelico che come Voldemort non dovremmo nominare mai, ci sta succhiando l’anima pezzetto per pezzetto. Esiste solo lui ed è logico, in fondo, che così sia. Perché ha ucciso troppi di noi. Troppi, e tutti ci sono vicini anche se sconosciuti. Ma non sta soltanto uccidendo i corpi; sta anche conquistando i nostri pensieri. E non va bene. È sbagliato. Con i dovuti distinguo e le enormi differenze, ci diciamo che è come stare in guerra. È bello pensare che i nostri nonni e bisnonni, che la ben più tragica esperienza della guerra reale l’hanno fatta davvero, ogni tanto si mettessero a ballare. A suonare e cantare. A giocare a pallone o a carte. A dipingere e a disegnare. A raccontarsi storie, tantissime storie e fiabe, perché il segreto racchiuso nelle fiabe è di infondere coraggio: ai bambini e pure agli adulti che non si siano dimenticati di avere uno spirito bambino dentro di sé e l’abbiano alimentato.
È bello immaginare che sentissero, i nostri vecchi, il bisogno di non farsi rubare dalla guerra non solo il corpo ma anche l’anima. Come poeti, è bello pensare che avessero la sapienza di sfruttare i limiti imposti dalla guerra per creare, inventare, produrre comunque cose belle. E se la libertà fisica era in gran parte negata, scoprivano una libertà che niente e nessuno poteva negargli, la libertà della fantasia, del sogno, della creatività. La guerra c’era, incombente e assordante. La guerra affamava e terrorizzava. Eppure non poteva né doveva essere il pensiero fisso. Non bisognava permetterglielo, altrimenti avrebbe vinto lei e la pace avrebbe perso. Infatti molti di loro, nelle cantine e nelle galere, pensavano al futuro; e il futuro non li colse impreparati. Tutti eroi o tutti accoppati, scrisse un soldato su un muro nei pressi del Piave un secolo fa.
Oggi dovremmo scrivere: tutti poeti o tutti accoppati, magari vivi di fuori, ma ammazzati dentro dal clima plumbeo, dal pensiero fisso, dalla paura che ci svuota. Parliamo anche di altro, pensiamo anche ad altro. I canti ai balconi purtroppo hanno qualche limite di troppo. Consentono agli sguaiati di continuare a imporsi sugli altri. Offrono spazi eccessivi al protagonismo dei narcisi. Probabilmente non sempre rispettano i morti. Ma nelle nostre case possiamo, silenziosamente e delicatamente, dare spazio al sogno. Possiamo, anzi dobbiamo pensare al dopo, affinché la luce in fondo al tunnel, che oggi appena intravediamo con la speranza che non sia un miraggio, non ci abbagli cogliendoci impreparati. Pensiamo, sogniamo a come potremo essere migliori. La crisi fa emergere il meglio e il peggio. Fa diventare più duri ed egoisti i cattivi e più generosi e miti i buoni. Rivela tutta la verità su chi siamo. Così accadrà all’Italia: prevarranno gli uni o gli altri? Per questo i buoni devono farsi trovare pronti. E lo saranno soltanto se ora, in catene, avranno composto la propria poesia.