La giovane abruzzese. Fabrizia, simbolo di giovani forti
Non ci voleva questa tragica notizia per l’Abruzzo e per la città di Sulmona, arrivata con la conferma della morte di Fabrizia Di Lorenzo nell’attentato a Berlino. Il telefonino ritrovato sul luogo, l’irraggiungibilità alle disperate chiamate dei familiari (poi volati a Berlino per l’esame del Dna), il realistico commento del papà di Fabrizia sulla probabilità della morte avevano da subito intristito la città di Ovidio, così risplendente, nel suo magnifico centro storico, di luminarie e di addobbi, quelli raccontati anche da Monicelli al cinema. Purtroppo non è stata neppure l’unica notizia mesta per Sulmona in quanto si è sovrapposta, in queste ore, a quella di un dipendente dell’amministrazione municipale, dai media collegato all’inchiesta sui cartellini di presenza strisciati extra orario, il quale si è tolto la vita. Triste, triste arriva questo Natale 2016 per la città, per la provincia aquilana già così provata col sisma del 2009 e per la regione tutta, interessata anche, a nord, dagli ultimi terremoti di Amatrice e Norcia nell’area tra Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo appunto. La foto di Fabrizia, che sta rimbalzando su tutti i media, non la ritrae solo bellissima. È il ritratto della gioventù e della voglia di vivere. Con quel sorriso, con quegli occhi – dallo sguardo dolce e diretto che sembra dire alla vita: fatti sotto, vediamo chi vince – è l’antitesi di ciò che le è successo.
Ci sia consentita una tenerezza locale: è molto abruzzese il volto di Fabrizia, in questa forza e bellezza che esprime. E non si può non provare una stretta al cuore nel pensare che questa ragazza, se fosse andata a comprare i regalini di Natale invece che a Breitscheidplatz, in quelle bancarelle attorno alla Chiesa della Memoria dove si è schiantato il Tir, sarebbe stata viva adesso, per aver scelto uno dei tanti altri mercatini della capitale tedesca; o se solo fosse uscita prima o più tardi e si fosse trovata lì non in coincidenza, anche per un soffio, col tragico appuntamento. C’è qui un proverbio che un antico dolore – misto a una punta di fatalismo, ma anche alla combattività nel non disarmarsi mai di fronte alla vita – ha generato, e che suona così: «La morte a chi j’attocche cerca sole ’na scuse», la morte a chi è destinata cerca solo una scusa. Non è grammatica italiana, come chiunque vede: il doppio dativo è irregolare. Ma è grammatica dell’anima, grammatica universale, profondissima tra l’altro e micidiale, proprio per la sua sintesi. Fabrizia Di Lorenzo aveva trentuno anni.
Dopo il diploma al Liceo Linguistico 'Vico' di Sulmona, si era laureata prima con la triennale alla Sapienza di Roma in Mediazione linguistico-culturale, poi con la magistrale all’Alma Mater di Bologna in Relazioni internazionali e diplomatiche, per completare gli studi con un master alla Cattolica di Milano in Tedesco, su Comunicazione Economica. Parlava correntemente il tedesco e dopo un’esperienza di lavoro a Vienna, si era trasferita a Berlino, lavorando prima alla Bosch, poi alla 4Flow, dove i colleghi non l’hanno vista arrivare la mattina del 21. Generazione Erasmus, generazione di cittadini d’Europa, quella di Fabrizia. Ma di un Erasmus che si prolunga a vita – in alcuni casi – col lavoro all’estero e non per allegra scelta di una permanenza universitaria di qualche mese fuori sede. L’entroterra abruzzese ha dati di disoccupazione, non occupazione e neeting altissimi. In questi giorni sia monsignor Angelo Spina, vescovo di Sulmona, sia monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti, hanno richiamato l’attenzione sul problema del lavoro per i giovani.
Se il grado di civiltà di una collettività si misura da come tratta e integra le marginalità, in esse va oggi cercata quasi un’intera condizione anagrafica, i giovani appunto, soprattutto al centrosud, dove i dati sono drammatici. Fabrizia era andata a lavorare all’estero perché, pur coi suoi brillanti titoli, non c’era lavoro qui, dice il sindaco di Sulmona Annamaria Casini; e invece ha trovato la morte, che – come dice il proverbio – 'le cercava', come scusa, il lavoro. Per strapparla alla sua famiglia, ai suoi affetti, alla sua città.