Le firme per il referendum. Eutanasia, se il vento spinge nel vicolo scuro
Ha sorpreso persino i promotori radicali la rapidità con la quale è stata raggiunta la soglia delle 500mila firme per chiedere l’indizione di un referendum popolare sulla legalizzazione dell’eutanasia. Adesioni raccolte nella metà del tempo fissato per arrivarci, in piena estate, tra italiani con la testa altrove. E dunque la prima cosa da fare davanti all’annuncio da parte del Comitato promotore referendum Eutanasia legale e dell’Associazione Luca Coscioni è chiedersi cos’ha convinto tanti italiani a far propria la richiesta di depenalizzare la morte procurata a una persona che ne fa richiesta, un atto che pare disumano al solo pensarlo, perdipiù in un tempo segnato dall’immane sforzo globale per strappare alla morte ogni malato di Covid.
Gli organizzatori della macchina referendaria segnalano anche una significativa presenza di giovani ai banchetti allestiti nelle vie e nelle piazze, in veste sia di volontari sia di firmatari. Un intreccio di suggestioni che impone di allargare la riflessione ben oltre il quesito referendario, orientato ad abrogare la parte di articolo 579 del Codice penale che oggi sanziona con la reclusione «da 6 a 15 anni» chiunque «cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui».
E il primo incontro è con un evidente paradosso. Se il mezzo milione di firme sembra aver sfidato i pronostici che annunciavano una campagna in salita, in realtà è apparso presto chiaro che dentro lo slogan «Liberi fino alla fine» col quale i radicali hanno identificato la loro iniziativa eutanasica c’è la parola d’ordine di questa epoca. Un’idea guida potente e chiara, comprensibile a tutti, perfetta sintesi di certo spirito dei tempi, un concetto che suona familiare in modo speciale ai più giovani: niente e nessuno può limitare la propria libertà, a maggior ragione quando riguarda le decisioni su se stessi.
L’individualismo che sgretola il senso di appartenenza a una comunità governata da limiti, princìpi, regole e doveri ha affermato il dogma del diritto illimitato di scegliere rimuovendo ogni possibile vincolo.
Al bene comune si è anteposto il proprio, e se il Covid ci ha mostrato che solo nell’appartenenza a un corpo solidale c’è il vantaggio di tutti, affidando all’aiuto degli altri la propria inevitabile insufficienza, è ormai irresistibile il richiamo di chi promette una libertà assoluta, sempre, fino alle conseguenze ultime. Come fossimo soli al mondo. Non è così, ma è questo che ci viene fatto credere, finché non pensiamo che questa autodeterminazione estrema – spinta sino a chiedere e ottenere la morte – sia un diritto da codificare. Una pretesa apparentemente invincibile.
Nella raccolta firme per l’eutanasia – che ha suscitato la «grave inquietudine» della Presidenza Cei – non c’è una sfida controvento ma l’esatto contrario: l’interpretazione fedele di ciò che la cultura diffusa suggerisce con parole efficaci. La luce abbagliante della libertà nasconde il suo oggetto, la morte e tutto ciò che significa quando si arriva a chiederla: solitudine, indifferenza, abbandono, cure negate, tacito invito collettivo a farsi da parte...
Spostata l’attenzione verso la scelta insindacabile su di sé, spariscono numerose questioni che però non si possono ignorare: le cure palliative e la terapia del dolore sinora accessibili a una esigua minoranza di italiani, le strutture sanitarie locali troppo spesso pesantemente deficitarie rispetto alla pressante domanda di assistenza, l’estendersi della popolazione con più patologie di lungo periodo, i costi di un sistema sanitario che deve farsi carico di domande crescenti fino a diventare insostenibile per i conti pubblici, l’età media che si allunga insieme alla sua scia di malattie degenerative, la frammentazione della società che isola un gran numero di anziani e famiglie con disabili, la persuasione che solo la salute sia un bene e un valore, e la malattia invece una specie di maledizione...
È a questi nodi umani e ai diritti che evocano e reclamano che bisogna volgere l’attenzione degli italiani, anziché convincerli che la soluzione sia la libertà di farla finita. Sarebbe una grande, corale campagna di civiltà e di vita, una stagione di diritti per i più fragili, la nuova rivoluzione del samaritano che si ferma a soccorrere il bisognoso, e di certo non lo finisce per assecondare la sua angoscia.
Che diritto è quello di morire se non un grido disperato che reclama di spegnere una vita fattasi insopportabile? Un Paese come il nostro, con la fibra umanitaria e altruista che ancora lo anima, deve farsi vicino a questo dolore vasto e diffuso con ogni energia, guardandosi bene dal cedere al marketing della morte spacciata per estrema forma di libertà.
Al bivio dell’eutanasia c’è una strada che ci mantiene umani, prossimi gli uni degli altri, e un’altra che varca irrevocabilmente la soglia nera oltre la quale la morte vale quanto la vita, con medici e infermiere stipendiati dallo Stato che la procurano come fosse una terapia, solo con un protocollo diverso. Una società che già oggi seleziona nei fatti gli inefficienti e i costosi rischia di sfigurare con un colpo di penna il suo volto, rottamando con fare noncurante millenni di repulsione per l’omicidio, fosse pure di chi lo chiede credendolo la soluzione ai suoi drammi.
In tutto questo scenario, i giovani scontano la fatica di fare i conti con il dolore e la morte che noi adulti abbiamo cercato di far sparire accuratamente dalla loro esperienza di vita. Il risultato di questo vuoto educativo è la repulsione verso uno spettro ingovernabile: meglio un’iniezione di pentobarbital (la stessa sostanza per eseguire le condanne a morte) che lo strazio di una sofferenza apparentemente insensata, come una condizione umana fallita, un guasto nel sistema.
Presto potremmo essere chiamati a pronunciarci su questo. Ma è il diritto alla vita e la civiltà che esso esprime la vera, epocale posta in gioco di questa partita a scacchi con la morte on demand.