La fine delle ostilità. Etiopia ed Eritrea, una pace che può cambiare l'Africa
Abiy Ahmed (a destra) durante i colloqui con il leader eritreo Isaias Afwerki
All’inizio dell’anno nessuno avrebbe immaginato che il 2018 sarebbe stato un tempo di cambiamenti così radicali nelle relazioni tra Etiopia ed Eritrea e più in generale nella cornice geopolitica del Corno d’Africa. Infatti, lo scorso 8 luglio, è stata firmata una dichiarazione che pone fine allo 'stato di guerra' tra i due Paesi. A siglarla sono stati Abiy Ahmed, nuovo primo ministro etiope e il presidente eritreo, Isaias Afwerki. Il disgelo nelle relazioni diplomatiche era iniziato lo scorso aprile con l’insediamento, ad Addis Abeba, del nuovo premier Abiy che ha subito espresso un indirizzo politico all’insegna del dialogo, non solo con le opposizioni interne, ma anche con la vicina Eritrea. La sorpresa è comunque stata ufficializzata a giugno quando Abiy ha dichiarato che il suo esecutivo avrebbe rinunciato alle rivendicazioni territoriali in Eritrea, quelle che hanno rappresentato l’oggetto del contenzioso sfociato, il 1 maggio del 1998, nella sanguinosa guerra fratricida tra i due Paesi. La riapertura della rotta aerea diretta tra le due capitali, Addis Abeba e Asmara, del commercio bilaterale e delle rispettive ambasciate, sono segnali incoraggianti.
Ma per comprendere il significato del nuovo corso è necessario tornare indietro con la moviola della Storia. L’Eritrea, infatti, era storicamente parte integrante del grande impero d’Etiopia, ma nel 1950 ottenne finalmente lo status di regione autonoma federata dell’Etiopia per decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Purtroppo, nel 1962, per decisione unilaterale dell’imperatore d’allora, il negus Hailé Selassié, l’Eritrea venne nuovamente annessa all’Etiopia, scatenando l’inizio di una trentennale guerra per l’indipendenza. Il 12 settembre del 1974 un colpo di Stato compiuto ad Addis Abeba da un gruppo di ufficiali dell’esercito etiope detronizzò Hailé Selassié, proclamando poi, il 12 marzo del 1975 la fine del regime imperiale e la nascita di uno Stato comunista. Due anni dopo prevalse l’ala più radicale del partito guidata dal maggiore Menghiastu Hailè Mariàm, soprannominato il 'Negus Rosso'che instaurò, per alcuni anni, un regime dispotico contro chiunque si opponesse al suo delirio di onnipotenza. A pagare un prezzo altissimo furono i civili, in particolare quelli eritrei, che si opposero strenuamente al regime di Menghiastu con azioni di guerriglia. Successivamente, con la caduta dell’ex Unione Sovietica, iniziò un nuovo corso con la nascita di uno Stato repubblicano, sancito ufficialmente con la nuova costituzione del 1995. Nel frattempo nel 1993, l’Eritrea aveva ottenuto l’indipendenza dopo essere stata a lungo una provincia dell’Etiopia. Inizialmente, i due Paesi mantennero buone relazioni, ma nel 1998 iniziò una guerra per il possesso di Badme, una località sperduta a cavallo del vecchio confine coloniale italo-abissino.
Per quella petraia sassosa e polverosa morirono circa ottantamila soldati, in uno scenario bellico devastante. Poi dal 2000, con gli accordi di Algeri, si giunse d un 'cessate il fuoco provvisorio', che ha offerto il pretesto ad Afewerki, 'padre-padrone' dell’Eritrea, di militarizzare l’intero Paese imponendo a tutti la leva permanente e drenando le poche risorse in armamenti. Da qui la fuga di massa dei giovani verso l’Europa. Da rilevare che Afewerki ha imposto il monopartitismo impedendo lo svolgimento di libere elezioni. E dall’indipendenza in poi, molti oppositori politici sono stati arrestati, mentre l’economia nazionale è stata fortemente penalizzata. Afewerki, con la ristretta cerchia dei suoi collaboratori più fidati, ha, ancora oggi, il controllo di tutto: assetti istituzionali e militari, scelte politiche e programmi economici. Sul versante opposto, in Etiopia, il continuo stato di allerta sul confine nord-orientale, ha fatto sì che la spesa militare crescesse a dismisura. La crisi economica e il montare delle proteste regionaliste, soprattutto nella regione dell’Oromia, hanno rischiato di generare vere e proprie insurrezioni. Un clima di forte instabilità che ha allarmato i principali investitori stranieri, in primis, il governo di Pechino. A questo punto non restava altra possibilità che innescare l’agognato cambiamento, affermando nei fatti una piattaforma democratica.
Il merito è tutto di Abiy, il 42enne ex ministro della Scienza e della Tecnologia, leader dell’Organizzazione democratica del popolo oromo (Opdo), una delle 4 formazioni politiche su base etnica che formano la coalizione al governo, il Fronte democratico rivoluzionario del popolo etiope (Eprdf). Nato nella città di Beshasha, nella regione dell’Oromia, appartiene ad una famiglia mista, con padre musulmano e madre cristiana. Ha svolto il servizio militare nelle forze armate, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Successivamente, ha fondato e diretto l’agenzia governativa responsabile della sicurezza informatica. Ebbene questo giovane premier si sta rivelando un vero e proprio statista e un grande riformatore. Abiy ha avviato da subito cambiamenti forti e radicali. Anzitutto ha decretato la fine dello stato d’emergenza, liberando gli oppositori politici, denunciando l’uso della tortura da parte dei servizi di sicurezza. Inoltre, nei primi cento giorni del suo governo, ha licenziato i funzionari governativi implicati nelle violazioni dei diritti umani. Abiy è certamente una figura carismatica ed è visto come latore di speranza anche dal gruppo etnico degli oromo, che costituisce più del 40 per cento della popolazione, e che da anni patisce l’esclusione sociale e politica, oltre che economica, rispetto agli interessi generali dei governi centrali che si sono succeduti al potere. A ciò si aggiunga il fatto che provenendo da una famiglia mista (padre musulmano e madre cristiana), Abiy potrebbe avviare una stagione di confronto e collaborazione in Etiopia tra le due principali comunità religiose, quella dei cristiani e quella dei musulmani.
Da rilevare che ha anche riformato i vertici delle forze armate e avviato un processo di liberalizzazione dell’economia. Sta anche studiando una riforma della costituzione, secondo lui, troppo condizionata dal federalismo etnico. Ma l’orizzonte di Abiy, va ben oltre la cornice del Corno d’Africa. Non è un caso se già all’indomani della sua nomina, il neopremier etiope si è recato nella capitale saudita, Ryad, per incontrare l’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman, anch’egli protagonista di una svolta nel suo Paese. Per le rispettive diplomazie, è importante creare un nuovo arco d’alleanze dal Mar Rosso all’Oceano Indiano, in grado di contenere l’esuberanza di Turchia e Qatar in Sudan e in Somalia.
Ma attenzione, non è tutto oro quello che luccica. Lo dimostra l’attentato dello scorso 23 giugno, contro Abiy. È avvenuto durante un comizio del leader etiope: una granata ha fatto una vittima e 150 feriti. Abiy, comunque, non vuole cedere alle intimidazioni e intende andare avanti con determinazione. Ha capito bene che una radicalizzazione del confronto con le opposizioni politiche ed etniche avrebbe a lungo andare determinato l’implosione del suo Paese. Inoltre, il nuovo corso avviato con l’Eritrea era indispensabile per ridare stabilità all’intera regione del Corno d’Africa, una delle più instabili e povere di tutto il continente africano. E poi, come molti analisti hanno evidenziato, l’Unione Africana ha estremo bisogno di nuovi leader, del calibro di Abiy, capaci di fare sistema, contrastando l’indirizzo delle oligarchie dominanti nel continente. Sarà la Storia a giudicare. © RIPRODUZIONE RISERVATA TRATTATIVE. Abiy Ahmed (a sinistra) durante i colloqui con il leader eritreo Isaias Afwerki