Opinioni

Il dibattito. Tra etica e arte: cosa rivaluta 25 milioni di volte una banana?

Alessandro Beltrami e Paolo M. Alfieri sabato 30 novembre 2024

L'opera di Maurizio Cattelan "Comedian", una banana incollata al muro con lo scotch

Justin Sun, imprenditore nel settore delle criptovalute, venerdì 29 novembre ha fatto quanto aveva promesso: davanti alle telecamere, nel corso di un evento organizzato a Hong Kong, ha mangiato la famosa banana incollata a una parete con nastro adesivo, pagata 6,2 milioni di dollari a un’asta di Sotheby’s la scorsa settimana, ovvero l’opera di arte concettuale “Comedian” di Maurizio Cattelan. In realtà Sun non ha acquistato né la banana né il nastro adesivo esposto da Sotheby’s, ma un certificato di autenticità e le istruzioni per riprodurre l’opera, una volta ricomprati a proprie spese banana e scotch. «Il valore reale è il concetto stesso» ha dichiarato Sun. La sua gioia deriva anche dal fatto che Sotheby’s ha accettato il pagamento in criptovalute. La banana per realizzare l’opera è stata pagata 25 centesimi a una bancarella di frutta di New York (una costa 35 cent, quattro 25 cent). Questo significa che il prezzo, a opera realizzata e venduta, è salito di circa 25 milioni di volte. Perché? Che interrogativi pone?


Come un atto di fede: per chi ci crede è realtà, per altri aberrazione

di Alessandro Beltrami

Il New York Times è andato a cercare il mercante bengalese da cui i dipendenti di Sotheby’s hanno acquistato per 25 centesimi la banana che è stata inserita nell’opera Comedian di Maurizio Cattelan, venduta per oltre 6 milioni di dollari (in criptovalute: un dato che non va ignorato e che spiega molto di questa superquotazione, da leggere soprattutto come vistoso spot della finanza digitale). Il primo equivoco è continuare a pensare che da Christie’s sia stata venduta una banana (dimenticando per altro il nastro adesivo). Il secondo è concentrarsi sui 25 centesimi. Nessuno si chiede quanto Jackson Pollock abbia pagato i barattoli di vernice industriale, la stessa con cui tutti gli altri pitturavano il cancello di casa. O i frammenti di giornali impiegati da Picasso nei collage cubisti, gli stessi che tutti gli altri buttavano in pattumiera.

Il Novecento ci ha insegnato che si fa arte con tutto, non importa quanto sia povero il materiale. Mentre nella storia è stato sempre essenziale che l’arte, status symbol per eccellenza, fosse prodotta con materiali costosi, spesso estratti da una manovalanza poverissima, ed è stata sempre pagata moltissimo. Se non lo intendiamo scivoliamo nel moralismo. Arenarsi alla sperequazione tra il prezzo della banana alla fonte e quello finale (qualunque esso sia sarebbe “esagerato”) ignora il fatto che nel processo la banana non è più la stessa. Potremmo dire che ci sono due banane: la prima era un frutto destinato a essere mangiato per sfamarsi, la seconda la parte di un oggetto particolarmente complesso nella sua disarmante semplicità (ad esempio: la banana e il nastro saranno sempre diversi, l’opera sempre la stessa), ma anche estremamente efficace. Lo dice il successo planetario e la viralizzazione nella cultura di massa, con la corsa al meme. Lo dimostra anche il fatto che Comedian sia un’opera che ha ormai diversi anni, risale al 2019, e non dovrebbe fare più stupore. Eppure, ha la capacità di saltare sempre agli onori della cronaca. La cosa più interessante, però, è la sua capacità ciclica di scatenare un dibattito (tanto tra chi è del mestiere e tra la gente comune) su che cosa sia o non sia arte. Ma forse anche questo è un equivoco. Forse gli strumenti per comprendere tutto questo devono essere altri.

Il vero problema non è tanto che cosa è o non è arte, ma chi dice che è arte o no. O meglio: da dove deriva, dove si fonda l’autorità di chi certifica, che è in ultima analisi il sistema stesso. Ed è questo che Comedian mette veramente in luce. Questa banalissima banana scocciata alla parete chiama in campo categorie che sono proprie della teologia politica, ossia il principio un tempo metafisico e quindi autofondato del potere. Questo perché il sistema dell’arte, come quello politico, è uno dei campi di applicazione più vistosi della secolarizzazione (i suoi albori coincidono con la nascita della figura del critico d’arte) ma anche di azione della postsecolarizzazione. Provare a traslare le riflessioni di Carl Schmitt (per il quale tutti i concetti più importanti della dottrina moderna dello Stato sono concetti teologici secolarizzati) dal sistema del diritto a quello dell’arte è stimolante. Il centro principale di Teologia politica (1922) sta nel tentativo di spiegare la sovranità e l’importanza teologica che l’uomo dà al potere stesso. Scomparse le forme che nella tradizione legittimavano il riconoscimento dello status di artista (e quindi di opera), è divenuto fondamentale chi detiene il potere: nell’arte il combinato variabile di critica e mercato. Ma il sistema dell’arte è di fatto uno stato di eccezione, in cui il sovrano è l’artista: la sua figura e ciò che compie sono salutati come completamente eccezionali, non riconducibili alla norma (la banana da 6 milioni di euro): ciò che nella teologia è il miracolo.

Non è il solo addentellato tra i meccanismi con cui l’arte giustifica se stessa e la teologia. Si entra in un territorio complicato ma, se ben inteso, illuminante. Di fatto l’autorità dell’artista, nella sua eccezionalità, è paragonabile a quella sacerdotale, in particolare nella sua capacità di trasformare la materia, spostarla dal suo stato “naturale”. Il passaggio dal consumare la banana-come-cibo al consumare la banana-come-arte ha una matrice che ricorda da vicino quella sacramentale. Sia ben chiaro: non è sacramento e non avviene transustanziazione. Ma ne è la sua forma secolarizzata. Che un oggetto, un’immagine, un’idea, un prodotto della fantasia o del caso sia un’opera d’arte è in ultima istanza un atto di fede. Per chi crede è realtà. Per gli altri una aberrazione del buon senso.



Un sapore amaro che sa di povertà e disuguaglianza

di Paolo M. Alfieri

Tocca a un venditore bengalese di New York mostrarci ancora una volta che il re è nudo, se solo, tornando bambini, riuscissimo a vederlo. In un tempo in cui i concetti di immagine e status symbol si moltiplicano, Shah Alam, nome che a nessuno può dir nulla, si chiede, nel suo inglese approssimativo, “che tipo di persona è”. Chi è, che valori ha, in cosa crede, in definitiva, l’uomo che una decina di giorni fa ha speso 6,2 milioni di dollari ad un’asta di Sotheby’s, a New York, per la banana trasformata con un nastro adesivo in opera d’arte dall’artista italiano Maurizio Cattelan. Sì, proprio la stessa banana che lo stesso Shah Alam, immigrato 74enne, turni da 12 ore in piedi in un chiosco di frutta dell’Upper East Side, 500 dollari al mese di affitto per dividere un seminterrato nel Bronx con altri quattro disperati come lui, aveva venduto agli addetti di Sotheby’s quel giorno al prezzo di 35 centesimi (o quattro per un dollaro).

“Non sa cos’è una banana?”, si è chiesto ancora pietrificato il venditore – e quanti ne vediamo, ogni giorno, ad ogni angolo, pur restando ai nostri sguardi di fatto invisibili –, prima di scoppiare a piangere e spiegando di non poter nemmeno immaginare quella somma. Sei milioni, poca roba per il 34enne cinese re delle criptovalute Justin Sun, patrimonio netto 1,4 miliardi di dollari, che proprio ieri ha mangiato l’opera acquistata davanti a decine di giornalisti e influencer. Perché cosa te ne fai, del resto, di una spesa del genere, se non puoi nemmeno mostrare con nonchalance di averla consumata, magari lanciando la buccia per terra.

Dicono che l’arte non ha prezzo e che tutto, a suo modo, può essere arte, se a un oggetto o a una performance attribuiamo quella valenza. E lo stesso Cattelan pare avesse consegnato a “Comedian”, il titolo del suo pezzo concettuale (proprio la banana attaccata col nastro adesivo), un implicito messaggio sull’assurdità di un certo mondo artistico. Eppure rischieremmo di non essere umani se questa storia non ci scuotesse nel profondo. Se non ci sentissimo schiaffeggiati nell’anima da una vicenda che nulla ha a che fare, evidentemente, con l’arte. E molto, o tutto, con gli squilibri. Le diseguaglianze. Con il valore che diamo alle cose. Soprattutto, a quelle a cui assegniamo il significato di status symbol. Fosse anche una banana.

Shah Alam, vedovo, arrivato a New York già quasi anziano per seguire una figlia trasferitasi qui da tempo, forse non sa nulla di arte e certamente non ha mai messo piede dentro Sotheby’s, con cui condivide beffardamente solo lo stesso angolo di mondo, tra la 72esima e York Avenue. Eppure, mai due mondi apparvero più distanti. «Sono solo un pover’uomo», non si è certo vergognato di ammettere al reporter che gli aveva appena rivelato dove fosse finita la sua banana venduta per 35 centesimi. Perché diventasse un’“opera d’arte”, degna dei 6 milioni di Justin Sun, gli addetti di Sotheby’s hanno dovuto seguire il manuale di istruzioni di Cattelan: posizionarla a 175 cm da terra, con una stringa di 20 centimetri di uno specifico nastro grigio che deve essere attaccato per formare un angolo di 37 gradi. Partita da una base d’asta di 800mila dollari, in cinque minuti la banana si è arrampicata ben più in alto, in una contesa tra miliardari che sa poco d’arte e molto, troppo, di ostentazione del privilegio.

Se Cattelan cammina su un filo come un funambolo e da artista fa il suo gioco, anche ironizzando sul suo mondo e su un tale assurdo spettacolo globale, Shah Alam, una vista profondamente compromessa, resta convinto che il sapore canzonatorio insito in questa “Comedian” sia a spese sue e di un altro pezzo di mondo. Il suo. Perché il pianeta resta lo stesso per tutti, prima che una storia come questa ci metta davanti le sue roventi contraddizioni. Oltre a fare un parallelo tra l’arte concettuale e le criptovalute, il miliardario Justin Sun ha tenuto a farci sapere che quest’opera “ispirerà più riflessioni e discussioni in futuro e diventerà parte della storia”. Mangiata la sua banana, pardon, la sua opera d’arte, ottenuta la fama planetaria cui anelava ben oltre la ricchezza, Justin Sun tornerà nel suo mondo parallelo fatto di jet privati e soldi che fanno soldi. Di valute virtuali dal sottostante nullo. A cui quella banana, pardon, l’opera, ha fatto da spot planetario. A noi, in bocca, resta un sapore amaro. Che sa di diseguaglianza. E non solo di povertà.