La Giornata (e la vita) con i rifugiati. Esseri umani tutti insieme
Quanti sono i rifugiati nel pianeta?
Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite si tratta di cento milioni di persone. Gente costretta a fuggire dalla propria terra per sopravvivere a guerre, dittature, violenza, miseria: molti minorenni, tante donne con figli piccoli, individui feriti, traumatizzati, condannati all’esilio geografico, linguistico e culturale. Nella Giornata mondiale dedicata a questi profughi, che si celebra il 20 giugno, il rischio per tutti noi resta sempre quello di lasciarci ingannare dai grafici, dalle statistiche, perfino dalle testimonianze: un carico troppo pesante da recare sulle spalle. Si può avere l’impressione di non sopportare il peso del nostro stesso privilegio col risultato di passare indifferenti di fronte all’oltraggio degli stessi princìpi di giustizia nei quali, almeno a parole, diciamo di credere.
Se vogliamo davvero conquistare la dignità della specie a cui apparteniamo, dobbiamo conoscere realmente i perseguitati: un numero crescente di italiani lo sta facendo, ed è la ragione per cui anch’io non perdo la speranza nei confronti dei miei connazionali. Continuo a vederne tanti che, in mezzo al mare dell’ignavia, della protervia, della maleducazione, fanno un passo avanti, escono dal mucchio e prendono posizione, spesso a fari spenti, nella dimensione quotidiana, senza che nessuno li consideri, compiendo gesti magari poco reclamizzati eppure significativi: quante sono le famiglie che stanno accogliendo nelle loro case gli sfollati ucraini? Ammiro questa gente e la capisco. Forse dipende dal fatto che da quando nella mia vita ho deciso di andare verso gli immigrati dentro di me ho sentito una specie di scossa che mi ha cambiato come uomo, come docente e come educatore.
Ricorderò sempre il giorno in cui, ormai tanti anni fa, nell’ora di ricreazione, mi avvicinai a quei tre adolescenti dagli occhi a mandorla che stavano provando a giocare a basket nel cortile dell’istituto professionale dove insegnavo lettere. Da dove venite, ragazzi? Per primo mi rispose Mohamed: dall’Afghanistan. Siamo arrivati a piedi, da Kabul a Venezia, aggiunse Noruz. E io d’istinto: avete fatto il viaggio di Marco Polo, però all’incontrario. Chi era questo signore? Me lo chiese Hafiz. Un mercante, gli dissi. Vidi i suoi occhi illuminarsi. Cominciai a parlare di letteratura. Mi sembra di udire ancora le nostre voci. Ci siamo nascosti sotto le sospensioni di un Tir in partenza da Patrasso per arrivare in Italia. Lo sapete che siete passati vicino all’isola di Zante, dove nacque Ugo Foscolo? Chi era, professore? Uno dei più grandi scrittori italiani. Ci puoi recitare una sua poesia?
«Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo di gente in gente». Proprio come noi! Sì, infatti morì esule a Londra.
Non era più soltanto scuola. Pareva di essere stati sempre insieme: esseri umani di questo mondo, legati da catene invisibili a occhio nudo. Ciò che accade a te riguarda anche me. Se tu stai male, io non posso stare bene. Da quel momento ho conosciuto decine e decine di rifugiati ai quali insegniamo la lingua italiana nel tentativo di ricomporre le fratture interiori della loro esistenza. Quando li penso mi vengono in mente: Abdi, somalo, mentre si scopre la maglietta per mostrarmi la cicatrice del proiettile che gli ha bucato lo stomaco; Solomon, eritreo, falegname dal sorriso smagliante il quale trattiene a stento l’ansia per la sorte della moglie e dei figli rimasti in patria; Seyed, iraniano sordomuto dalla nascita, che siamo riusciti a far leggere e scrivere persino durante il lockdown; Blessing, nigeriana col bambino accanto il cui padre resta avvolto nel mistero; i giovani siriani, seri e compiti; i sudanesi, riservati e quieti. Tutti lanciati verso il futuro incerto e precario, pronti a partire ancora, neanche fossero uccelli di passo, verso la Francia, la Germania, l’Inghilterra. Alcuni mandano messaggi su WhatsApp da Parigi, Stoccarda… Grazie tua scola, scrivono svelti. Indimenticabili, resteranno sempre dentro di noi.