Essere un padre. Il piccolo senza nome e il campione
Chi piangerà il bambino annegato nel nostro Mediterraneo e recuperato dai volontari di una Ong europea? Non sua madre, probabilmente morta con lui. E chissà dov'è suo padre, e se un padre l’ha mai avuto. Un piccolo senza nome, come tanti, troppi altri sommersi in un viaggio senza approdo. Il suo corpicino vinto e abbandonato, tra le braccia di un soccorritore con il caschetto rosso – la fotografia è stata pubblicata ieri su questa prima pagina – è una straziante Pietà contemporanea: un innocente trafitto dall’incuria e dal disamore umani e finalmente un padre che lo accoglie tra le braccia. Ecco: ci vorrebbero dei padri, per questi bambini. Perché i padri proteggono, si buttano nella mischia, mettono in gioco la propria vita per quella dei figli.
I padri salvano. Ed è precisamente l’essere padre ciò che ha spinto anche la superstella del basket Marc Gasol a salire sulla nave della Ong Open Arms. «Pensando ai miei due figli ho deciso che dovevo fare qualcosa», ha dichiarato con semplicità. Non tanto per affermare una posizione politica, non per dire al mondo da che parte sta uno spagnolo «emigrato» negli States e diventato una celebrità del massimo campionato di pallacanestro. Si è imbarcato come volontario perché è un padre. E, da padre, immagina quali sfide affronterebbe per raggiungere un Paese diverso, in cui poter vivere con i suoi bambini in pace e con dignità. La «chiamata» è maturata in lui nel 2015, quando vide il piccolo Aylan inerte sulla sabbia.
Marc Gasol vuole testimoniare ai suoi due figli che se credi che una cosa sia giusta, allora non è sufficiente affermarlo, ma per quella cosa devi scendere in campo, giocare la tua partita. E salvare le persone in mare è giusto. Lo scriviamo da sempre su questo giornale. E qualche giorno fa lo scrittore Sandro Veronesi lo ha scritto da par suo in una lettera aperta, pubblicata dal 'Corriere', invitando uomini e donne «di buona volontà » a salire sulle barche che salvano i migranti in mare. Un «blocco navale» formato da corpi che strappano altri corpi dalle profondità del Mediterraneo. In un momento storico in cui le parole non valgono nulla e si può descrivere come «pacchia» e «crociera» la fuga dei disperati, è ora di rompere gli indugi – scriveva Veronesi – smettere di parlare e «metterci direttamente il corpo», perché il corpo è la vita stessa. Sono le braccia ad allungarsi per afferrare chi sta annegando. Sono le gambe che spingono a nuoto verso il gommone che si capovolge.
L’invito è ad andare laggiù «dove lo scempio ha luogo, e starci col proprio ingombro, le proprie necessità vitali, la propria resistenza». In mille occasioni, nella storia dell’umanità, il corpo è stato strumento per la pratica della non violenza; ora può diventarlo della pietà e della compassione, e può fare la differenza tra la vita e la morte di qualcun altro. Suggestioni da intellettuale, non c’è dubbio: chi mai immaginerebbe una flottiglia composta dai corpi di celebri attrici e attempati stilisti, canuti cantanti e atlete olimpiche, commissari televisivi e calciatori miliardari, così come descritta da Sandro Veronesi nella sua accorata lettera aperta?
Ma ecco che Marc Gasol, con il suo corpo lungo 216 centimetri, lascia a terra i suoi guadagni milionari, i suoi trofei sportivi e sale volontario nella barca dei generosi che una propaganda cieca e accecante ha osato (e ancora osa) chiamare «complici degli scafisti». Ci sale come un semplice padre. Non ne facciamo un eroe, però, come ieri sui 'social' è pure accaduto, ma piuttosto un emblema. Un uomo che guarda negli occhi una donna sopravvissuta dopo 48 ore trascorse aggrappata a un legno alla deriva nel mare e la riconosce sorella. Che adagia un piccolo inerme sul fondo della barca e lo sente figlio. Che non sa risolvere l’enorme, epocale e complesso fenomeno delle migrazioni. Ma che di fronte ai disperati vuole una cosa sola: essere un padre.