Gianfranco Bettetini. Essere padre e maestro senza cercare specchi
Ci sono persone che cercano di tenere insieme dimensioni inconciliabili secondo il senso comune, o compatibili solo in una logica di priorità che definisce gerarchie inevitabili, sacrificando sempre qualcosa. La prospettiva tecnicoscientifica e quella umanistica, per esempio. O la fede e la ragione. L’accademia e l’arte. La famiglia e la professione. Perché nella serena consapevolezza del limite, senza nessun delirio di onnipotenza, è possibile esplorare vie di ricomposizione anziché separazione e contrapposizione, nella prospettiva di quell’«intero» che noi siamo.
Gianfranco Bettetini ha cercato di farlo per tutta la vita. Non senza contraddizioni, con risultati diseguali, ma sempre con coraggio, serietà, immaginazione. Un ingegnere delle telecomunicazioni che diventa, con il collega e amico di una vita Umberto Eco, ambasciatore della semiotica in Italia; regista di programmi televisivi di varietà e di lungometraggi cinematografici; autore di romanzi, giornalista. Docente paterno, a volte un po’ burbero, determinato nel tenere un filo costante con i suoi collaboratori, maschi e femmine, tutti diversi per sensibilità, interessi, posizioni teoriche, prospettive politiche. Non perseguiva l’omogeneità, non cercava specchi che semplicemente riflettessero la sua immagine.
Era un uomo di fede, ma non pretendeva che si credesse come lui. Non amava la corte, non era paternalista, non dispensava favori in cambio di fedeltà come troppo spesso, purtroppo, nell’accademia accade. La sua era una logica di promozione: far crescere i suoi allievi, perché potessero superarlo. Io la chiamo una logica generativa. Per questo, più che un maestro, è stato per me un padre e un esempio. L’esempio non chiede di essere emulato. Piuttosto consegna una responsabilità, un mandato, e prima ancora un desiderio: siate esseri desideranti, è il suo testamento non scritto, ma per me così vivo. Desiderio di capire, di smontare ciò che ci rende prigionieri dei luoghi comuni, che vela i nostri occhi al bello che è anche buono.
Un padre, Gianfranco, lo è stato non solo in senso metaforico. Capostipite di una famiglia numerosa, e proprio per questo libero dalle logiche competitive di un carrierismo cinico, e capace di comprendere, incoraggiare, sostenere, oltre che ispirare, gli inevitabili sforzi di conciliazione tra vita familiare e professionale di chi lavorava con lui. Lo dico per esperienza strettamente personale: non credo avrei potuto essere madre di tanti figli, e nello stesso tempo investire sul fronte del lavoro, se fossero stati altri i miei interlocutori. Pochissimi sono in grado di capire che, persino in una logica performativa, la maternità non è un handicap ma anzi un elemento che può generare un sovrappiù di valore, uno sguardo diverso, una sensibilità più fine per la realtà. Lui era tra questi, e in diverse gliene siamo profondamente grate.
Mi commuove pensare agli ultimi anni della sua vita, dove evidenti impedimenti fisici avrebbero giustificato un ritiro un po’ rassegnato. Invece, quel corpo che da imponente era diventato fragile e dipendente era animato da una curiosità inestinguibile, da un desiderio di continuare a trasmettere quanto aveva conosciuto, di testimoniare un’epoca forse passata, ma senza la quale il presente resta indecifrabile o preda di letture mistificanti e ideologiche. Il suo ultimo intervento pubblico, per la celebrazione dei 50 anni della rivista “Comunicazioni Sociali”, della quale ha tenuto la direzione dal 1996 al 2011 per poi passarla a me, è stato anch’esso esemplare: tanta fatica a salire sul palco, ma poi che ironia, lucidità, acume! Questo, insieme a una cena di quest’estate, è il mio ultimo ricordo, a forma di sorriso.