La parola di papa Francesco. Essere cristiani e santi cioè non avere paura
Un paio di settimane fa papa Francesco aveva chiesto agli studenti del romano Liceo Visconti di liberarsi dalla dipendenza da telefonino, all’inizio di questa settimana ha suggerito ai parrucchieri di evitare «il chiacchiericcio» spesso presente nel contesto lavorativo del coiffeur. È avvenuto in occasione dell’incontro con parrucchieri, acconciatori ed estetiste devoti a San Martino de’ Porres, domenicano che aveva dedicato la sua esistenza ai poveri e ai malati «riservando loro cure sanitarie, grazie alle nozioni apprese dapprima in una farmacia e poi come allievo di un barbierechirurgo, secondo l’usanza di quel tempo».
Il Vescovo di Roma, insomma, non perde occasione per declinare il messaggio fondamentale del Concilio, quello della vocazione universale alla santità, entrando nello specifico di ogni singola modalità esistenziale. Perché essere cristiani vuol dire essere decisi a essere santi, ma essere santi significa essere disponibili al martirio. Fino a Costantino i termini di santità e di martirio erano in pratica dei semplici sinonimi, come testimonia il fatto che, ancora oggi, l’elenco dei santi canonizzati si chiama martirologio. Successivamente la ricerca della santità si è dovuta muovere per altre vie approdando alle forme della vita religiosa che, in qualche modo, aveva degli antesignani negli anacoreti, negli eremiti, con esempi in san Giovanni Battista e, addirittura, per l’Antico Testamento, in Elia; all’elenco si potrebbero forse aggiungere anche altri esempi precedenti la venuta di Cristo perché, in un certo senso, certe forme di ascetismo rigoroso attraverso le quali si cerca di soddisfare la sete di divino che c’è in ogni uomo, non sembra siano esclusive del cristianesimo.
Si sarebbe in tal modo passati dal 'martirio rosso' al 'martirio bianco', cioè dalla testimonianza del sangue (martirio, che in greco significa testimone, e rosso, il rosso del sangue) a quella del lasciare tutto (bianco, senza bisogno di sangue): un 'abbandonare tutto' che indica l’Amore di Dio come l’Assoluto della vita dell’uomo. Secondo molti esperti il fenomeno del martirio come dimostrazione di fede cesserebbe a favore di una vita che sia in sé stessa segno, testimonianza escatologica.
È interessante a questo proposito notare che nell’ufficio composto per la festa del monaco san Martino di Tours (316-397), probabilmente il primo santo non martire, proprio a indicare la possibilità di essere santi anche se non si viene martirizzati, si dice: «Anima santissima, anche se la spada non ti ha colpito, non hai perso la gloria del martirio» (Antifona al Magnificat, la memoria si celebra l’11 novembre). Da san Martino ad oggi, lo Spirito Santo ha tanto soffiato nella Chiesa fino a farle comprendere che la santità è per tutti. Solo farglielo comprendere? No: farglielo vivere. La recente strage dello Sri Lanka ha prepotentemente collegato il martirio al partecipare alla Messa nel giorno del Signore.
Se fino a Pasqua il combattimento spirituale per la decisione di andare a Messa riguardava scegliere se adempiere al precetto domenicale o combattere con il sonno, con il fare le pulizie di casa, comprare quello che lungo la settimana non si è riuscito, ascoltare un prete noioso, dopo le stragi di Colombo (e non solo) ci rendiamo conto che quando andiamo a Messa corriamo il rischio di sederci non su un banco ma su una bomba. Prima di papa Francesco, è lo Sri Lanka a ricordarci che, per un cristiano, gli spazi della vita comoda sono ormai ridotti al lumicino. È terribile che ci siano gli attentati ma è bello che cristianesimo, santità e martirio, siano concetti sempre più difficili da distinguere.
Era un po’ il senso della nuova strada per la canonizzazione aperta un paio d’anni fa da papa Francesco: l’offerta della vita a motivo della carità verso il prossimo. Andare a Messa è una scelta che può comportare l’effusione del sangue: può spaventare ma aiuta a comprendere che l’unica paura del cristiano deve essere diventare un sale che non ha più il sapore del Vangelo.