Il direttore risponde. Eritrei, consapevolezza e augurio
don Angelo Chiappa, Brescia
Abbiamo fatto quello che possono fare dei giornalisti, caro don Angelo. Abbiamo tenuto gli occhi aperti e dato tutto lo spazio che merita a una storia umanissima e straziante, nella quale si mescolano ingiustizia, morte, dolore e speranza. Una storia che in teoria conosciamo, che chiamiamo «tratta degli esseri umani», che sembra così terribile da non poter essere vera e, comunque, da non poter essere tollerata da nessuno Stato degno di questo nome. Una storia della quale periodicamente giornali, televisioni e radio accennano qualcosa, citando numeri, percentuali e valutazioni tratti dai rapporti o dai dossier prodotti dalle agenzie dell’Onu e da organizzazioni non governative. Una storia che stavolta è stato invece possibile – come forse mai prima – prendere 'dal basso', cioè dalla parte di chi la stava vivendo e patendo. Tutto è cominciato con la notizia di un’ottantina di profughi eritrei peregrinanti nei deserti di Libia e di Egitto, dopo che nella scorsa tarda primavera il Mediterraneo era diventato per loro il gran fossato di un’Italia e di un’Europa apparentemente irraggiungibili. Non perché non avessero titolo per essere riconosciuti come richiedenti asilo per motivi umanitari, ma perché nessuno s’è mai posto davvero il problema di 'riconoscere' queste persone e nessuno ha messo a disposizione tempo, uffici e incaricati per farlo. La logica del «respingimento» a prescindere è intollerabile per questo: se ci sono uomini e donne e bambini che stanno alla porta e bussano, si fa come se non esistessero, si tiene chiuso e basta. Ma in questa storia c’è stato e c’è dell’altro. Il numero dei disperati coinvolti s’è ingrandito, anche se la loro nazionalità è rimasta prevalentemente eritrea. Si è potuto verificare che nel Sinai, al confine con Israele, fiorisce un commercio di uomini e donne condotto – tra cento e cento disattenzioni e tra smentite che niente possono smentire – con cinismo e violenza da negrieri. In questa storia ci sono sangue, sesso e soldi: persone uccise, donne violentate, organi espiantati e venduti, riscatti pretesi e pagati, banditi arroganti e tollerati...Eppure nel mondo dei mass media quasi nessuna eco: un giornale inglese, uno etiope, qualche sporadico flash televisivo, briciole anche su giornali tradizionalmente sensibili. E solo ora la stampa del Cairo sembra rompere il silenzio...Persino la voce paterna e accorata del Papa ha stentato a trovare eco. Forse, in questa storia non c’è abbastanza 'politica' perché la sofferenza degli inermi faccia rumore, o – meglio – è chiamata in causa una politica ben diversa da quella delle chiacchiere e dei veleni fini a se stessi. È amaro constatarlo, così amaro che non riesco quasi a gioire della liberazione di altri venti ostaggi avvenuta alla vigilia di Natale. Prima di tutto perché sono liberi soltanto per il fatto che i predoni-carcerieri egiziani sono stati pagati come pretendevano, e poi perché non mi tolgo di mente le persone che anche in questo momento sono sottoposte a violenza e vivono l’oscurità di una prigionia feroce. Ma non possiamo e non dobbiamo arrenderci, caro don Angelo. Noi di Avvenire abbiamo fatto e faremo ancora la nostra parte. Rompendo un silenzio al limite dell’omertà. Non parlando per loro, ma parlando di loro. Riconoscendo le vite piagate e il buon diritto dei profughi eritrei e di tutti i loro fratelli: quelli che cercano speranza e, come ognuno di noi, la meritano sulla terra degli uomini e sotto al cielo di Dio. È un modo anche questo per dirci che Natale è qui, e va vissuto nella sua verità. I lettori accettino questo mio povero augurio. (mt)