Gli eritrei, il colonialismo e il regime: coscienze mancate e ancora mancanti
Il giornalista e scrittore a cui lei si riferisce, caro professor Salvoldi, è Gian Antonio Stella: un collega che conosco bene, che stimo molto e con il quale ho condiviso e condivido alcune importanti battaglie civili e culturali, a cominciare dalla lotta alla corruzione in tutte le sue forme, compresa la piaga purtroppo sempre più infetta dell’azzardo. A scanso di equivoci, dico subito che condivido pienamente anche lo spirito che anima il suo articolo sul "Corriere della sera" di lunedì scorso, 28 agosto, intitolato «Ipocrisia e verità negate sui profughi d’Eritrea costretti a scappare dall’ex colonia italiana». Una denuncia vibrante, rapida ma documentata della indifferenza, delle interessate acquiescenze e delle incredibili complicità che anche in Italia (come in quasi tutto l’Occidente) circondano e sostengono Isaias Afewerki, capo del regime che schiaccia e soffoca l’Eritrea da un quarto di secolo, provocando un fiume incessante di persone in fuga dalla propria patria. Per questo sulle pagine di "Avvenire" dedichiamo una continua attenzione alle vicende di quella nazione, forse il Paese africano più legato al nostro. Sono troppe le coscienze mancate e ancora mancanti del dramma di gente che da decenni è forzata all’emigrazione...
Detto questo, penso che lei, con sensibilità affinata anche dalla sua passata e intensa esperienza politica (da parlamentare tra i Verdi), abbia toccato una questione vera e seria: è vero che pure la sinistra socialista sino a cent’anni fa (cioè, più o meno, sino al 1920, ai tempi della Terza Internazionale) non seppe cogliere e affrontare le vicende coloniali nella loro reale portata e nelle effettive implicazioni. L’ostilità alle colonizzazioni è stata infatti vissuta a lungo dai socialisti dalla parte dei poveri europei mandati in battaglia e non ancora dalla parte dei poveri abitanti dei Paesi invasi e conquistati... Almeno un cenno su questo punto, come lei suggerisce, avrebbe reso indubbiamente più completa l’efficace analisi di Stella, anche per cogliere bene lo spirito del tempo, e le priorità valoriali e politiche delle "correnti" ideali che contribuirono a formare l’opinione pubblica di allora. In tutta franchezza, però, non credo che Stella abbia per così dire "studiato" quell’omissione. E vengo alla citazione di una frase del vescovo Giovanni Giorgis (1887-1954) a proposito della «luce divina della vera fede e della carità fraterna» portata dagli italiani colonizzatori in terra d’Africa. Una citazione non nuova, che l’ottimo collega aveva già usato in un suo duro, e oggi più che mai utile, libro sulla piaga del razzismo. Beh, sono quasi certo che sia stata usata per controbilanciare l’allucinante invettiva di un politico italiano xenofobo (il poco amore per i poveri, soprattutto stranieri, e il troppo amore per i dittatori vanno spesso di pari passo...) contro i profughi eritrei che osano denunciare arbitrii, violenze e torture subiti dagli scherani di Afewerki: «Che prove hanno più che le balle che loro e qualche pretaccio infame vanno in giro dicendo?». Per i signori delle porte chiuse le sofferenze dei piccoli e dei deboli sono sempre «balle». Per loro gli affamati e assetati di giustizia non sono beati, ma mentitori, e i sacerdoti che li rincuorano, li accolgono e li servono in nome di Cristo sono «pretacci»... Sono sicuro che Gian Antonio Stella ha simpatia per questi sacerdoti buoni e insultati, ma non è un chierichetto, non vuol passare neanche per sbaglio per tale e sa – dosando con gran mestiere gli "ingredienti" dei suoi pezzi – come riuscirci. Però non è neanche un mangiapreti a prescindere, e io so che non sopporta paraocchi. Con amicizia, allora, segnalo a lei e a Stella che il buon vescovo Giorgis, nato in terra di Piemonte, non può essere accompagnato neanche per sbaglio a razzisti di qualunque risma: può essere invece accompagnato agli Alpini. Quegli Alpini che negli anni delle italiche esaltazioni e imprese coloniali furono spediti pure in Eritrea e Libia. Tra loro, da disarmato uomo di pace, fu cappellano, e cioè commilitone, fratello e padre. E accanto a loro, nella prima guerra mondiale, meritò anche una medaglia al valore. Per di più fu tra quanti si spesero perché patrono degli Alpini fosse proclamato san Maurizio, l’ufficiale imperiale romano che, coi suoi legionari (egizi), rifiutò di uccidere civili innocenti di un’altra etnia (galli). E per questa scelta condivisa coi suoi uomini subì il martirio. Era un leale soldato, Maurizio, ma da uomo probo e da cristiano aveva chiaro che non tutti gli ordini sono buoni e non tutte le disposizioni meritano di essere rispettate. Anche questa storia dice qualcosa d’importante su chi sia stato davvero il vescovo e alpino Giorgis, che fu un non infallibile figlio del suo tempo e, sbagliando, aveva visto e indicato un bene possibile persino nella colonizzazione di altre terre e popoli. Tuttavia e prima di tutto – come s’intuisce dal vero cuore della citazione scelta da Stella – Giorgis era un uomo di Dio deciso a farsi prossimo ai piccoli, ai deboli, ai feriti nel corpo e nell’anima. Non sapeva e non voleva dividere fede e carità, rettitudine e concreta solidarietà e da vescovo riuscì a fare – come testimonia chi lo conobbe da vicino – del perdono, offerto e richiesto, il segno della sua vita e della sua missione. Oggi, ne sono convinto, aprirebbe ancora le braccia per accogliere i profughi eritrei e servire ogni povero.