Ha suscitato interesse e polemiche la scelta dei radicali di tenere il loro congresso nel penitenziario di Rebibbia. È una sfida, se vogliamo, provocatoria ma coerente, con il rilievo da sempre dato dal partito alla questione carceraria e, a differenza di altre lanciate da quell’area politica, non meritava pregiudiziali ripulse: se si sceglie una sede come quella per dibattere sul come far 'avanzare la Costituzione nelle carceri', perché dolersene? Meno felice, la richiesta, non a torto respinta nelle sedi competenti, di un’autorizzazione al trasferimento temporaneo, nella capitale, di una quarantina di detenuti iscritti al partito, taluni dei quali condannati per crimini gravissimi, affinché potessero prender parte di persona al congresso: la fondamentale libertà di partecipazione all’attività politica può ben incontrare dei limiti, a salvaguardia di altre esigenze non meno degne di tutela, tra le quali, preminente, quella della sicurezza pubblica e purché il relativo bilanciamento non richieda costi umani ed economici sproporzionati (così insegna anche la Corte europea dei diritti dell’uomo); ora, la partecipazione a un dibattito non passa necessariamente attraverso la presenza fisica e d’altronde è difficile negare che ad accettare la richiesta si sarebbero corsi grossi rischi, non bilanciabili se non apprestando eccezionali risorse di personale e di mezzi di controllo. In ogni caso, non devono essere dei timori artificiosamente alimentati a deviare l’attenzione dalla percezione delle dimensioni reali di problemi enormi. In particolare, sulla massima tra le pene carcerarie – l’ergastolo – siamo sicuri di essere sempre indotti a coglierne tutto il senso e tutta la portata? Certo, a detta di molti c’è poco da discutere. Almeno quando si tratta di colpevoli di efferati delitti, non ci sarebbe che un unico strumento, come contrappasso al crimine, risarcimento morale alle vittime e antidoto contro i rischi di pericolose recidive; 'oggi che non c’è più la pena di morte...', a sradicare le 'male piante', guai, insomma, a rinunciare alla loro separazione – quanto più inderogabilmente rigida e totale, ma soprattutto definitiva ('e buttare la chiave!') – dal resto della società... Quanto a chi la pensa altrimenti, si appoggia solitamente a una constatazione, che si vuole a sua volta sicura e tranquillizzante, seppur in tutt’altra direzione: ormai l’ergastolo non è più necessariamente – si dice e si ripete – il 'carcere duro' di un tempo e non è neppure una reclusione propriamente 'a vita', giacché, dopo 26 anni, chi vi è stato sottoposto può, in via di principio, fruire della liberazione condizionale; nessuno, dunque, in Italia, sarebbe irrimediabilmente condannato a finire i suoi giorni dietro le sbarre. Atteggiamenti, quantomeno, più problematici sono suggeriti, in forme inconsuete ma di forte presa non solo emotiva, da due recenti volumi, uno dei quali, solo da qualche mese in libreria, riprende già nel titolo –
Ergastolani senza scampo – un’icastica espressione coniata da Adriano Sofri. Aperto da una prefazione di Gaetano Silvestri, presidente emerito della Corte costituzionale, vi si concentra l’attenzione su una realtà che smentisce l’assolutezza dell’assunto secondo cui in Italia non ci sarebbe più la prigione perpetua. È l’'ergastolo ostativo', riguardante quei detenuti che, condannati per reati gravissimi, non collaborino a smantellare le organizzazioni criminali di cui facevano parte: ne consegue l’esclusione dai 'benefici' che la legge concede agli altri ergastolani e dunque anche dalla liberazione condizionale. Sulle 'criticità costituzionali' che ne emergono si sofferma a fondo Andrea Pugiotto, docente dell’Università di Ferrara. In sintesi: «È comprensibile e ragionevole che, nei confronti degli autori di delitti di particolare gravità, il legislatore stabilisca regole di accesso ai benefici penitenziari più severe di quelle valevoli per la generalità degli altri condannati»; inaccettabile, però, «la previsione di una pena senza fine... adoperata come strumento di pressione» (per ottenere un comportamento altrimenti non obbligatorio) e operante «in modo indifferenziato». A dare sostegno al ragionamento del costituzionalista ferrarese è una ricerca empirica i cui risultati sono illustrati, in appendice al volume, da Davide Galliani, docente della Statale di Milano; ma stimolante, nei suoi chiaroscuri, appare soprattutto il contributo di una persona – Carmelo Musumeci – che la prospettiva di una porta del carcere chiusa per sempre l’ha sperimentata per oltre 20 anni: fino a quando, cioè, la magistratura non ha sentenziato che, per ragioni indipendenti dalla volontà di lui, erano venuti meno i presupposti per una sua utile collaborazione con la giustizia, divenendo perciò inesigibile la condizione richiesta al fine della concessione dei 'benefici'. Ritmato con cadenze che evocano quelle di monologhi e dialoghi teatrali, è un condensato di speranze, di delusioni, di rabbie, di disperazioni, proprie e altrui, scandite secondo i tempi, dall’alba alla notte, di una giornata che finisce spesso con il suggello di un sogno, «di non attraversare mai più una notte come questa». Musumeci non rivendica un’innocenza, che sa di non avere, per i crimini addebitatigli (in risposta alla domanda di un ragazzo, un giorno ebbe semmai a dire: «Sono nato colpevole. Sono quello che ho potuto essere, non quello che mi sarebbe piaciuto essere»). In modi spesso graffianti e urticanti, porta piuttosto una testimonianza delle varie, desolanti sfaccettature che la prospettiva dell’annullamento di ogni orizzonte 'di fuori' comporta, nella vita individuale e nelle relazioni intersoggettive di una persona (comprese quelle marcate di più intensa affettività), con conseguenze di cui si stenta sovente a scorgere un rapporto con il tipo di crimine commesso e una coerenza con quel fine 'rieducativo' che l’art. 27 della Costituzione vorrebbe proprio della pena. Ripulse violente della situazione, scoraggiamenti, impegni a risalite, nuovi abbattimenti materiali e morali: è un vissuto intessuto di ombre sinistre e tragiche ma non del tutto privo di luci, anche quello che emerge dall’esperienza di un altro ergastolano, filtrata dalla mano di Elvio Fassone nel suo Fine pena ora, da poco giunto alla quarta edizione. Non manca, nemmeno qui, una sezione più strettamente 'giuridica', in cui l’autore, già magistrato e senatore della Repubblica, formula proposte di riforma normative e organizzative, badando anche a «non dimenticare Abele» (seppur non in contrapposizione ma in armonia con quanto fare 'per Caino'). Ciò che più vi risalta è però quanto precede, costruito quasi per intero sulla scorta di un’ultraventicinquennale corrispondenza epistolare tra Fassone stesso e 'Salvatore', in larga parte trascritta letteralmente (compresi gli errori di ortografia del detenuto). E ad imprimervi una peculiarità inconfondibile è il fatto che l’uno dei due interlocutori sia stato il presidente del maxiprocesso di assise da cui è scaturita la condanna dell’altro. Pure qui, nessuna pretesa d’innocenza da parte dell’ergastolano, esponente di spicco di un clan mafioso e responsabile di numerosi omicidi nell’ambito di una feroce guerra per bande. Piuttosto, l’insoddisfatto desiderio di far qualcosa perché i giovanissimi nipoti, già attratti nelle spire della malavita, non vi rimangano definitivamente impigliati («gli direi di studiare, di imparare ha fare un lavoro, altrimenti finiscono dove sono finito io»). E dall’altra parte – quella del giudice – niente, mai, da rinnegare, neppure circa la severità della condanna inflitta. Ma interrogativi, sì, e moltissimi, a partire dal turbamento suscitato da un’affermazione di Salvatore, pronunciata in una pausa di quel processo durante il quale egli aveva via via abbandonato l’arroganza dei primi giorni («se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo»). Ne verrà un forte stimolo, per il giudice, a prendere lui per primo la penna, una volta concluso il processo, e ad avviare un rapporto che sempre più si apre, dall’altra parte, anche alle più struggenti confidenze, non in vista di appoggi nella ricerca di indebiti privilegi ma piuttosto come espressione di una richiesta, a volte disperata a volge fiduciosa, di una 'paternità morale' nel senso migliore dell’espressione.
Fine pena ora s’intitola il libro... Ma non è la registrazione di uno sbocco felice – antitetico al 'fine pena mai' degli 'ergastolani senza scampo' – che la vicenda abbia già avuto. Fissa invece il rischio di una conclusione tragica, perché la narrazione inizia e si chiude sulla notizia di un tentativo di suicidio, fortunatamente sventato ma rivelatore, qui più che mai, della frustrazione di un’esistenza dopo l’ennesimo scacco conseguito a uno sforzo di lottare in positivo per sé e per gli altri e di ricominciare ogni volta daccapo. È però ancora il giudice a lasciare aperta una fessura alla speranza, scrivendo, a conclusione di tutto, «Ora tocca me; tocca me essergli padre. Raccontare la sua storia è un po’ risarcirlo e accompagnarlo ancora. E, forse, metterlo al riparo dalla sua disperazione».