Opinioni

Medio Oriente. Equilibri fragili. Perché la tregua con l'Iran non è la fine della crisi

Andrea Lavazza lunedì 22 aprile 2024

Il regime sciita, dalle elezioni del marzo scorso, ha tappezzato di manifesti di propaganda bellica la capitale iraniana Teheran

De-escalation è la parola chiave per il Medio Oriente in fiamme. E l’ultimo, debole colpo di Israele verso l’Iran ha fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti gli attori coinvolti a diverso titolo nella crisi. Ma se è sventato per ora il rischio di un conflitto aperto tra Teheran e Tel Aviv, sarebbe sbagliato pensare che la tensione andrà a calare rapidamente. Il ministro degli Esteri della Repubblica islamica, Hossein Amirabdollahian, ha minimizzato il bombardamento dello Stato ebraico di venerdì, affermando che le armi utilizzate sono «giocattoli con cui si divertono i nostri bambini». Ma, in un'intervista con Nbc News, ha detto che, se Israele avesse intrapreso “un'azione importante” contro l’Iran, la risposta sarebbe stata «immediata» e «al massimo livello».

La rappresaglia del governo Netanyahu all’attacco degli ayatollah senza precedenti della notte di sabato scorso contro il territorio di Israele è stato più che moderata, come chiedevano gli Stati Uniti e tutta la comunità internazionale. Ciò tuttavia non fa escludere che Tel Aviv possa mettere in atto nelle prossime settimane altri blitz diretti a colpire interessi dell’Iran dentro e fuori i suoi confini.
Se è vero che è attualmente non conviene a nessuno dei due contendenti avviare un devastante conflitto, rimane la complessità di una situazione in cui un fiammifero può fare esplodere l’intera polveriera. A Tel Aviv, il premier ha dovuto tenere conto dei richiami insistenti dell’alleato americano, avendo sperimentato, sotto la pioggia di missili iraniani, che le forze armate con la stella di David non possono prescindere dagli alleati per difendersi efficacemente. Ma lo stesso Netanyahu è pungolato a destra da alleati oltranzisti che vorrebbero regolare i conti con Teheran una volta per tutte. E, sebbene nessuno preferisca davvero la guerra alla pace, anche l’opinione pubblica israeliana ha vissuto in diretta sopra le proprie teste cosa significa che il regime degli ayatollah consideri “l’entità sionista” un cancro da estirpare.

Ha suscitato reazioni positive lo schierarsi di Giordania, Arabia Saudita ed Emirati dalla parte di Tel Aviv durante l’offensiva iraniana. Può trattarsi però di un filo molto sottile, soggetto a strattoni dall’uno e dell’altro capo. Da una parte, l’Amministrazione Biden preme su Riad perché riprenda il negoziato per l’adesione agli Accordi di Abramo. Sarebbe una svolta nella regione, sia per la sicurezza di Israele sia per ridimensionare l’espansionismo dell’Iran sciita. Dall’altra parte, lo spregiudicato Mohammad bin Salman Al Sa'ud valuta le offerte migliori. Infatti, auspice la Cina, sono ripresi anche i colloqui proprio con l’arcinemico Ali Khamenei (non ancora tra leader, ma i contatti sono aperti). Intanto, si continua a combattere e morire a Gaza, con le piazze arabe sempre in subbuglio e un altro sanguinoso raid israeliano, questa volta nella zona di Rafah, potrebbe rompere la precaria asse appena ricostituita tra il blocco islamico sunnita e l’Occidente.

Il nodo rimane l’assenza di un piano credibile di lungo periodo da parte di Netanyahu. Il confronto con Teheran ha fatto per qualche giorno finire sullo sfondo il destino della Striscia, che è ancora tutto da decidere. Davvero il premier, come si dice, vorrà prolungare la situazione di emergenza, sui diversi fronti, in attesa delle elezioni americane, per giocarsi la scommessa della vittoria di Trump e ottenere una sponda più empatica e robusta da oltre Atlantico? E se non andasse così, e si ritrovasse un Biden confermato e più forte?

Troppi mesi a novembre, in ogni caso. Bisogna quindi riconcentrare gli sforzi su Gaza perché si arrivi a una tregua e si pensi al futuro dei due Stati. È questa la Road Map che gli Usa perseguono in questo momento, ambiziosa ma necessaria all’attuale capo della Casa Bianca per presentarsi alle urne con un bilancio positivo in politica estera, stante la grande incognita che pesa sull’Ucraina (anche se il via libera di ieri sera al pacchetto di aiuti per Kiev raddrizza temporaneamente la situazione).
Un programma che non si realizzerà entro l’anno, ma per il quale bisogna almeno mettere le basi. Sarebbe un modo anche per ridurre le giustificazioni che l’Iran può accampare per le proprie provocazioni dirette o per interposto Hezbollah sul confine libanese.
Lo scenario resta dunque intricato e minaccioso. Difficilmente si andrà oltre una complicata gestione giorno per giorno, finché non si metterà sul tavolo un piano condiviso che abbia come punti fermi granitiche garanzie per Israele e realistiche prospettive di convivenza con il popolo palestinese e gli altri Paesi dell’area.

E ancora tutto questo non allenterà la scontro con l’Iran, per il quale servirà una strategia diversa e tutta da scrivere, seppure con urgenza e sagacia diplomatica, se non vorremo rivedere presto sinistri bagliori nei cieli mediorientali.