La Cassazione ha annullato la condanna al giudice che non voleva il crocifisso in aula? Data in questi termini la notizia è a dir poco ambigua. In realtà la Cassazione ha «annullato senza rinvio perché il fatto non sussiste » la condanna che la Corte d’Appello dell’Aquila aveva pronunciato nei confronti di un giudice perché questi, a causa della presenza in aula del crocifisso, si era rifiutato di svolgere le sue funzioni. Dunque la condanna prima e l’annullamento poi nulla hanno a che vedere con la questione dell’esposizione del simbolo religioso nelle aule dei Tribunali, ma riguardano il fatto se il rifiuto del giudice integri o meno i reati di interruzione di pubblico servizio e di omissione di atti di ufficio. Come sempre, bisognerà attendere il deposito della sentenza per conoscere le ragioni in base alle quali la Cassazione, disattendendo il parere dell’accusa, non ha ravvisato nel caso neppure un turbamento dell’attività giudiziaria. Di primo acchito lascia sorpresi che il rifiuto di soddisfare il proprio ufficio, che è ufficio eminentemente pubblico, e per ragioni di per sé ininfluenti sull’esercizio della funzione giudicante, non configuri alcuna ipotesi di illecito penale. Anche perché il caso specifico è del tutto particolare, atteso che l’esercizio della giurisdizione da parte dei giudici esprime un potere dello Stato, dinanzi al quale c’è una domanda di giustizia costituzionalmente garantita, che non può rimanere inevasa, per giunta per motivi del tutto personali. Per ragioni personali ben più rilevanti la Corte costituzionale ha più volte affermato che, quali che siano le ispirazioni etiche o religiose della coscienza del giudice, questo non può rifiutarsi di rendere giustizia. Ma attendiamo la sentenza. La questione però è tutt’altro che conclusa. È infatti aperto nei confronti del magistrato un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura, e da questo punto di vista almeno colpiscono le dichiarazioni riportate dalla stampa, secondo cui lo stesso si rifiuterà di tenere udienza ogni qual volta si troverà di fronte un simbolo della religione cattolica. Pare assai grave, infatti, che chi è addetto a far osservare le norme pubblicamente dichiari di non volerne osservare qualcuna, fosse pure una soltanto. E le norme sull’esposizione del crocifisso non solo sono vigenti, ma sono sin qui passate anche al vaglio della magistratura ordinaria e amministrativa. Resta il problema di sostanza: viola la laicità dello Stato l’esposizione del crocifisso? È chiaro, lo si è detto più volte, che si tratta di un simbolo che ha per tutti una forte valenza storica, culturale, identitaria, perché non c’è dubbio che esista una identità italiana e che questa sia stata forgiata dal cattolicesimo; identità che non può essere cancellata, anche se lo si volesse, così come non si possono cancellare la Divina Commedia o gli affreschi di Giotto. Identità di un popolo che deve essere forte e coltivata, se si vogliono affrontare pacificamente le sfide di una società multiculturale, qual è quella che sta divenendo l’Italia. Eppoi rimane quel monito saggio e forte di Natalia Ginzburg, per cui se per i credenti Gesù Cristo è il Figlio di Dio, per gli altri «può essere semplicemente l’immagine di uno che è stato venduto, tradito, martoriato ed è morto sulla croce per amore di Dio e del prossimo » . Pare davvero strano che proprio nelle aule giudiziarie, dove solitamente giunge una umanità sofferente, qualcuno voglia estromettere il simbolo per eccellenza di amore, di solidarietà, di perdono. Colpiva ieri ascoltare questa stessa tesi annunciata dai microfoni di Radio Radicale. Qualcosa si smuoverà?