Opinioni

Nazionalismi. Eppure il destino dell'Italia non è una fatal politica

Roberto Sommella venerdì 7 settembre 2018

L'incontro fra Matteo Salvini e il presidente dell'Ungheria Victor Orbàn, avvenuto il 28 agosto 2018 a Milano (Fotogramma)

Napoleone un giorno disse a Goethe: la fatalità? La politica, ecco la fatalità. Sembra incredibile ma siamo ancora a un bivio come ai tempi del Risorgimento, in attesa di un destino che rischiamo di subire. Scegliere tra Austria, Ungheria e Francia. Se una parte leghista del governo sembra pericolosamente affascinata dalle sirene nazionaliste dei Paesi del blocco di Centro Est, l’intero esecutivo si fa trascinare in uno scontro con un grande Paese co-fondatore dell’Unione Europa, polemizzando con Emmanuel Macron sia sulla Libia sia sui pur importanti princìpi dell’accoglienza che il presidente transalpino sembra interpretare a senso unico.

L’Europa è però troppo antica per cercare di capirla con la cronaca e gli esecutivi del momento. Nel nostro Dna scorre un fiume di storia, passione, tragedie che ci fanno diversi, nell’unità, dai tempi in cui alcuni popoli e Paesi, per secoli in guerra tra loro, decisero di metter in comune l’acciaio con cui avevano forgiato le armi per uccidersi a vicenda. Poi venne il ’68 e tutto cambiò, condizionando la vita, l’arte, la cultura e il destino dell’Est e dell’Ovest. Lo spunto per capire i possibili sviluppi dell’incontro tra Matteo Salvini e Viktor Orbàn, gemelli diversi del neonazionalismo, subito andati in contrapposizione proprio con Macron, parte da lì e arriva dalla letteratura.

In un articolo pubblicato nell’ormai lontano 1983 dalla rivista Débat, con il titolo «Un Occidente sotto sequestro, o la tragedia dell’Europa centrale», Milan Kundera insorge contro la divisione artificiale che aveva tagliato in due il continente deportando all’Est il mosaico delle piccole nazioni centro-europee, situate geograficamente al centro, culturalmente in Occidente e politicamente a Est, col risultato di proiettarle fuori dalla loro stessa storia. E spiega quello che sta accadendo ai nostri tempi. L’Europa nata nel 1957, sostiene Kundera, è il centro delle contraddizioni piuttosto che il big bang della Ue. Non è più un impero in via di consolidamento e di unificazione, e neppure quella struttura federale chiamata ad assorbire progressivamente gli Stati che la compongono, auspicata da Altiero Spinelli, ma una zona rossa ove si scontrano due modi di concepire la società: quello 'neo-imperiale' di Bruxelles, che si concretizza nell’unificazione forzata, nell’armonizzazione teutonica delle norme e nell’imposizione delle stesse; e quello 'rivoluzionario', dei praghesi e prima ancora di tutti i popoli che si erano sollevati contro ogni volontà di dominio e di assimilazione con vero spirito europeista.

La rivolta ungherese nel 1956, la primavera di Praga e l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1968, gli innumerevoli moti polacchi, ieri preludi del crollo finale del sistema sovietico, sono così diventati l’asse attorno al quale è nato il criticismo sovranista del gruppo di Visegrad, che tanto piace e attira il governo italiano a trazione Salvini-Di Maio. Questi momenti storici, unendo i Paesi del Patto di Varsavia a quelli dell’Alleanza Atlantica, hanno costituito l’Europa molto più dei suoi trattati, che invece hanno costruito quasi a tavolino l’Unione Europea. E quella che appare come l’insostenibile leggerezza dell’integrazione comunitaria, al centro dell’azione demolitrice del premier magiaro, nasce da ribellioni lontane rimaste però nel Dna di quei popoli.

Strette fra i tedeschi da una parte, e i russi dall’altra, queste nazioni dimenticate dalla carta geografica, hanno speso mille energie nella lotta per la loro sopravvivenza, contrastando in oltre cento anni l’Impero austroungarico, le invasioni di Hitler, il giogo di Stalin. E oggi si sentono assorbite da un nuovo Moloch, quell’Unione di diversità che tanto ricorda loro le vecchie annessioni e che evidentemente Paesi come la Francia non hanno vissuto, semmai combattuto. Possiamo dire, sinceramente, che sentiamo anche noi italiani come oppressiva la partecipazione europea, non avendo vissuto per decenni nel cuore di tenebra sovietico e avendo invece contribuito con francesi e tedeschi a edificarla? Il nazionalismo nostrano, con basi politiche ed economiche opposte (per dirne una: Budapest incassa oltre 3 miliardi netti dalla Ue, più o meno quelli che invece versa in più Roma) ha qualcosa in comune con quello dei Paesi dell’ex impero di Francesco Giuseppe? Ovviamente no. Se vogliamo davvero salire sul carro di Visegrad dobbiamo quindi essere consapevoli che potrebbe essere armato e senza ritorno. E che da quel mondo ci siamo affrancati 160 anni fa.

Non ci siamo invece affrancati e forse non ci affrancheremo mai dalla Francia (c’è chi pensa sia un male, io no), il Paese che ci ha aiutato a diventare indipendenti e che ha contribuito potentemente a rendere universali le garanzie di conoscenza e rispetto dei diritti umani. Certo, bisogna anche ammetterlo, la Francia si sta riprendendo tutto con gli interessi, avendo pervaso con la sua finanza un’ampia fetta della nostra economia ed essendo sempre molto competitiva con l’Italia in politica estera, si tratti del problema dei migranti a Ventimiglia o della Libia. Ma può bastare questa predisposizione francese per dire che non abbia ragione Macron nel lanciare l’allarme sui rischi che derivano dai neonazionalismi? Comunque la si pensi e ammettendo le difficoltà del suo giovane presidente, in forte calo di consensi, non si può dimenticare il peso e il ruolo del suo Paese nella costruzione di una democrazia planetaria.

Per fermare una deriva che sembra condurre a una guerra di secessione europea, occorre non abbandonarsi a polemiche del momento e ricordarsi come si è arrivati in Europa a far prevalere l’uomo su ogni prevaricazione secondo gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Mai come oggi quella stella polare dei diritti dell’era moderna rappresenta una salda bussola per chi si è perso nell’Europa dei confini, dei fili spinati, delle bugie digitali che si fanno verità. Condividere uno spirito comune e tenerci per mano, come fecero Helmut Kohl e François Mitterrand per suggellare la pace dopo due guerre mondiali, a Verdun, appare l’unica strada possibile. L’alternativa è inseguire di nuovo i fantasmi del nazionalismo dei primi del Novecento. In questo contesto, l’Italia dovrebbe dare il suo contributo, insieme alla Francia e alla Germania, per ribadire ancora quei princìpi universali, presidiando le istituzioni, rafforzando il ruolo dell’educazione, incalzando gli stanchi partiti tradizionali europei ed esigendo dai governi in carica il rispetto delle minoranze e delle opposizioni.

Tracciando, soprattutto, una linea rossa invalicabile tra il lecito antieuropeismo e le sue pericolosissime derive che si chiamano razzismo, xenofobia, antisemitismo che contaminano le nostre comunità. I governi, tutti i governi, passano. Le radici europee restano. Costruiamo presto una nuova idea di Europa solidale e integrata, perché non c’è niente di più fatale della politica quando si sceglie una strada sbagliata.