Dibattito. No, ambiente e paesaggio non sono amici. Basta paternalismo con la Sardegna
Alcune pale eoliche
Qualche giorno fa sulle colonne di Avvenire Leonardo Becchetti e Maurizio Pitzolu hanno pubblicato un interessante articolo intitolato “Rinnovabili e paesaggio in Sardegna: il falso contrasto”. L’articolo ha il merito di portare a livello nazionale un dibattito che solo apparentemente riguarda una singola regione. Becchetti poi è osservatore acuto e Pitzolu è manager bene informato di una società impegnata nella transizione e rappresentante per la Sardegna dell’associazione che riunisce i maggiori player del settore.
Concordo con alcuni dei punti che gli autori sollevano e ne aggiungo un altro che non viene menzionato. È in atto, a livello locale, una massiccia campagna stampa contro le rinnovabili, tutte indistintamente, che ogni giorno con toni allarmistici, facendo leva più sull’emotività che la ragione, rischia di fomentare allarme e sospetto nell’opinione pubblica. Occorrerebbe chiedersi: cui prodest?Detto questo, la lettura dell’articolo lascia perplessi su molti dei punti. A partire dal titolo che sembra negare un conflitto tra tutela dell’ambiente e tutela del paesaggio. In realtà, il conflitto esiste eccome. Tant’è che l’Europa è dovuta intervenire con una direttiva, successivamente recepita dal governo Draghi, per sciogliere il nodo e attribuire in questo caso priorità alla tutela dell’ambiente rispetto al paesaggio. Con un atteggiamento meno sbrigativo di quello che emerge dall’articolo, dovremmo quindi puntare non tanto a negare il problema ma ad individuare il giusto bilanciamento tra due esigenze entrambe sacrosante.
In questo senso, occorre innanzitutto affermare che esiste una incompatibilità assoluta tra la tutela del patrimonio paesaggistico e naturale e un certo modello di transizione. Non tutte le strade sono precluse – agrivoltaico ed eolico off-shore sono tra le meno impattanti e possono avere anche ricadute positive sul territorio - ma altre devono esserlo assolutamente. Affermare che «esistono tutte le condizioni per trovare un risultato mutualmente vantaggioso che consenta di realizzare gli obiettivi della transizione, quelli della tutela del paesaggio aggiungendo ad essi alcuni elementi di vantaggio per la popolazione locale» è, quindi, vero in astratto ma sotto molte e stringenti condizioni. Condizioni che andrebbero esplicitate in maniera precisa.
Ma dal titolo passiamo al sottotitolo - “La Sardegna ha il più alto rapporto di emissioni di CO2 per abitante”. Il sottointeso è che il passaggio alle rinnovabili proprio in Sardegna è particolarmente urgente e quindi non si dovrebbe andare troppo per il sottile. Il dato purtroppo è vero. Come è vero, però, che mentre lo spegnimento delle centrali a carbone nelle altre regioni è prevista per il dicembre 2025, in Sardegna il phaseout è stato differito al 2028, unica regione in Italia, per decisione del ministero dell’Ambiente. Del carbone e delle emissioni che ne derivano, i sardi ne farebbero volentieri a meno, ma sono costretti a tenerseli ancora a lungo a causa di una imposizione del governo. Così come un’imposizione intollerabile appare questa transizione alle rinnovabili, rapida, tumultuosa, disordinata, priva di una programmazione organica e in assenza di un piano energetico regionale e di una vera consultazione coi territori interessati e una co-progettazione ragionata. Il classico principio liberale che recita “no taxation without representation” andrebbe applicato anche in questo caso. E visto che la fissazione dell’obiettivo di una produzione minima di 6,2 GW entro il 2030 rappresenta una vera “tassa” per la Sardegna sarebbe necessario un ascolto istituzionale della voce di tutti i soggetti coinvolti perché come ci dicono gli studi al riguardo la soluzione al “problema NIMBY” ma passa principalmente per il coinvolgimento e la partecipazione democratica.
Ciò che ne consegue è la percezione di una imposizione violenta di una nuova servitù. Ma per Becchetti e Pitzolu questo non sembra essere un grosso problema. Del resto – scrivono – «le servitù militari nell’Isola ad oggi sono di 35.000 Ha (solo quelle di terra) e nessuno si è mai strappato i capelli per i danni che caserme e impianti militari avrebbero arrecato al paesaggio». Purtroppo, il dato quantitativo è vero: in Sardegna insiste il 67% di tutte le servitù relative alle regioni a statuto speciale contro, per citarne una, il 22% della Sicilia. Ma questa non può essere una scusa per dire che siccome non si protesta per le servitù militari non lo si dovrebbe fare neanche per le nuove servitù ambientali. Si tratta semmai di una ragione in più per chiedere con forza una rimodulazione delle quote minime di energia rinnovabile da produrre in Sardegna e un piano di sviluppo ragionato e condiviso. Che poi nessuno si sia strappato le vesti contro le basi militari e la devastazione che queste producono, è una affermazione incommentabile, una vera mistificazione della storia che in certi casi bisognerebbe conoscere meglio.
Purtroppo, le proposte normative in campo al momento sembrano inefficaci. Pannicelli caldi destinati a una facile impugnazione da parte del governo. Quindi, ben venga un dibattito che non può essere solo regionale, perché il tema della transizione e dei suoi modi ha necessariamente portata più ampia. I beni comuni – e ambiente e paesaggio lo sono entrambi – sono beni fragili che vanno attivamente protetti. Non si può, per salvare l’ambiente, distruggere il paesaggio né proteggere il paesaggio a scapito della tutela dell’ambiente. Il compito della politica è quello dell’individuazione di soluzioni fondate sul consenso per intersezione, su quei valori più profondi che ci uniscono e che ci fanno comunità. Non si possono tollerare scorciatoie utilitaristiche che sacrificano i legittimi interessi di una minoranza in nome dell’interesse della maggioranza.
In conclusione, la Sardegna viene definita «la meta dell’anima di tutti noi». Ecco, questo semplicemente non è vero. Non avremmo tante aree industriali dismesse ancora da bonificare, le centrali a carbone ancora funzionanti, tanta difficoltà a godere di una vera continuità territoriale, un collegio elettorale unico con la Sicilia, e molte altre storture che ancora attendono riconoscimento e soluzioni. Ecco, la Sardegna avrebbe bisogno di riconoscimento e soluzioni, di più autodeterminazione e meno paternalismo “continentale”.