Faccia a faccia asiatico Usa-Cina. Energie di guerra
La posta in gioco, come vedremo, è ben più ricca e insieme gravida di conseguenze. Per comprenderlo dobbiamo porre lo sguardo sul nuovo corso della politica estera americana. Da almeno un anno il baricentro della Casa Bianca si è visibilmente spostato dal Medio Oriente al Pacifico. Qui, in questo vastissimo teatro dove più di settant’anni fa si consumò l’attacco a Pearl Harbor e la successiva disfatta giapponese, gli interessi statunitensi poggiano da sempre sulla supremazia navale e sulla stretta tutela degli alleati giapponese, sudcoreano e taiwanese. Una sorta di cintura di contenimento della muscolare politica cinese e della grandi ambizioni di Pechino di porsi come grande e incontestabile player in tutta la zona costiera. A cominciare da quell’area di identificazione aerea di difesa, unilateralmente proclamata dalla Cina una settimana fa, uno specchio di mare ricco di gas naturali (soprattutto lo shale gas, il gas da scisti bituminosi, una sorta di metano ricavato dall’argilla) e di aree pescose.
Non sottovalutiamo lo shale gas: in sé non è una novità, ma l’aumento delle estrazioni – e dei progetti di estrazione – da parte di tutte le grandi compagnie parlano chiaro. Lo stesso ad di Eni, Paolo Scaroni, ammette: «Se non riduciamo il costo dell’energia con la competizione degli Stati Uniti vi assicuro che gli investimenti industriali qui in Europa non verranno. O abbracciamo lo shale gas o abbracciamo la Russia. Io altre idee non ne ho».
Idee chiare sembra averle invece Barack Obama, che con il contestato successo nei negoziati con l’Iran a Ginevra ha sostanzialmente staccato il biglietto di ritorno dal teatro mediorientale, dove la politica americana ha collezionato un’impressionante catena di insuccessi, dall’appoggio alla rivoluzione libica degenerata in una quasi ingestibile Somaliland al doppio colpo di Stato in Egitto culminato con il raffreddamento delle relazioni fra Washington e Il Cairo, dallo stallo effettivo della guerra civile siriana allo strisciante califfato degli jihadisti di intonazione qaedista che si snoda da Aleppo all’Iraq meridionale, fino a un Afghanistan denso di cupe incognite alla vigilia delle elezioni della prossima primavera.
Un biglietto di ritorno che contempla, cosa non secondaria, la drastica riduzione della dipendenza energetica dal greggio saudita e delle petromonarchie del Golfo a favore di un’autarchia – e chissà, secondo alcuni accorti analisti addirittura una sorta di futuro monopolio mondiale dell’energia proprio grazie alla produzione di shale gas. Come s’intuisce, la scaramuccia diplomatica attorno alle Senkaku–Diaoyu nasconde e insieme svela una grande contesa Usa-Cina sull’energia e sul dominio delle fonti energetiche.
Politica che la stessa Pechino persegue nel suo forsennato shopping di terre coltivabili in Africa (il cosiddetto Land grabbing), di porti dove attraccare navi porta-container, di aziende eccellenti (pensiamo alle tre Ansaldo in cerca di compratori) e soprattutto nell’audace riarmo della propria flotta da guerra, per ora limitata alla sola portaerei Liaoning , ma un domani pronta a fronteggiare adeguatamente l’onnipotente flotta americana. «We are here to stay», siamo qui per rimanere, ha dichiarato il vicepresidente americano Biden alla vigilia della sua visita a Tokyo, Seul e Pechino. «Anche noi», ha risposto la Cina. Parole da guerra fredda. Neanche tanto velate.