La crisi "morde" anche la demografia. I dati Istat che presentano il bilancio anagrafico per l’anno 2012 non si limitano a ricordarci che siamo tuttora sotto i 60milioni di abitanti, un’asticella che prima della verifica censuaria credevamo di aver già oltrepassato. Ci segnalano anche che non è solo l’attrazione dall’estero ad essere calata progressivamente, per via delle difficili condizioni economiche, ma è lo stesso numero dei nati ad aver subito un ulteriore deciso colpo al ribasso: altri 12mila casi in meno rispetto al 2011 (che già segnava un -24mila rispetto al 2010). Di fatto, con le 534mila nascite del 2012 si consegue il secondo peggior risultato in 152 anni di storia unitaria. Solo con i 526mila nati del 1995 – quando però avevamo tre milioni di abitanti (e quasi quattro milioni di stranieri) in meno rispetto a oggi – abbiamo fatto di peggio. D’altra parte, anche chi si illudeva che bastasse il contributo delle famiglie immigrate per uscire dall’inverno demografico ha già da tempo dovuto ricredersi. Dietro alle circa 80mila nascite da genitori stranieri – tuttora fondamentali per non sprofondare ulteriormente nel baratro, ma da qualche anno sempre meno in crescita (nonostante l’aumento della popolazione immigrata e dei relativi nuclei familiari) – c’è l’affermarsi di un modello che ricalca il comportamento degli italiani e recepisce i loro stessi condizionamenti riguardo alla sfera riproduttiva. Si tratta delle molte difficoltà – di ordine economico, abitativo, di lavoro e di organizzazione della vita familiare – che ogni coppia, senza distinzioni di passaporto, incontra – oggi più che in passato – nel mettere al mondo dei figli cui garantire quelle condizioni di sicurezza e di benessere che ogni genitore sente il dovere di poter offrire. Non è certo un caso che il bilancio Istat del 2012 presenti un saldo naturale (differenza tra nati e morti) di segno negativo per il sesto anno consecutivo, e lo è ancor meno il fatto che tale saldo sia "andato sotto" (più morti che nati) per ben 79mila unità in corrispondenza di uno degli anni più critici dal secondo dopoguerra. Se dunque i dati ufficiali mettono chiaramente in luce come si sia davanti a un vero e proprio "record negativo" sul fronte della vitalità del Paese – mai a partire dall’Unità nazionale si è registrato un saldo naturale così basso – è ragionevole e realistico pretendere che l’emergenza demografica venga inclusa nell’agenda della politica tra i grandi temi da affrontare per il rilancio italiano. E dobbiamo stupirci se, come purtroppo vediamo, questo non accade; anche perché le argomentazioni che legittimerebbero la collocazione dei temi demografici tra le priorità in un governo "del fare" non mancano certo. Ormai il tempo dei dibattiti e delle diagnosi sul malessere demografico e sulle sue cause è compiuto. Oggi anche i meno informati sanno, spesso proprio perché lo vivono sulla propria pelle, dell’enorme disagio che le famiglie incontrano nel "loro mestiere": ossia nel produrre e formare quel capitale umano che dovrà garantire un futuro all’Italia. Il resoconto dell’Istat parla di quasi 26milioni di famiglie – intese in senso anagrafico – con una dimensione media di 2,3 componenti. Se si pensa che negli anni ’50 erano meno di 12milioni e con 4 componenti in media, si ha subito l’immagine di un universo familiare certamente più diffuso, ma inevitabilmente più fragile e strutturalmente più in difficoltà nell’esprimere reti di solidarietà interna. La consapevolezza, suffragata dall’esperienza di vita vissuta, che il sistema delle famiglie sia ancora (soprattutto) oggi una risorsa di cui la società non può permettersi di fare a meno, fa sì che aiutarle a sopravvivere e a svolgere al meglio i loro compiti non sia una questione di assistenza, bensì un doveroso e intelligente investimento.