Opinioni

Londra. Elezioni inglesi: populismi in crisi

Giorgio Ferrari sabato 9 maggio 2015
Il premier Cameron l’ha definita «la vittoria più dolce», ma la schiacciante affermazione dei Tories alle elezioni politiche è qualcosa di più di un trionfo elettorale e non soltanto perché sul terreno si allineano smarrite le sagome ormai dimissionarie dei leader avversari Miliband, Clegg e Farage, ovvero i laburisti, i libdem e gli anti-Ue, e nemmeno per il fatto che le previsioni della vigilia, i sondaggi, le accurate analisi dei l premier Cameron l’ha definita «la vittoria più dolce», ma la schiacciante affermazione dei Tories alle elezioni politiche è qualcosa di più di un trionfo elettorale e non soltanto perché sul terreno si allineano smarrite le sagome ormai dimissionarie dei leader avversari Miliband, Clegg e Farage, ovvero i laburisti, i libdem e gli anti-Ue, e nemmeno per il fatto che le previsioni della vigilia, i sondaggi, le accurate analisi dei think tank prefiguravano un crollo del sistema anglosassone e si sono trovati davanti alla sua apoteosi. Nessun “caos all’italiana”, come tuonavano le cassandre britanniche, nessun hung Parliament (Parlamento appeso) e nemmeno il crollo del bipolarismo, che quasi tutti davano per certo. Semmai una disfatta della sempre meno affidabile industria dei sondaggi d’opinione, bisognosa di restauri urgenti se non di una radicale revisione dei propri criteri. Nel conquistare la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni (non accadeva ai conservatori dal 1992 con John Major) David Cameron si staglia da oggi come un grande e rispettato leader europeo, secondo solo a Angela Merkel, capace di influire sull’agenda comunitaria proprio e anche in virtù di quel referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea che ha assicurato si terrà come previsto nel 2017, così come agli scozzesi ha promesso la devolution, ovvero «il più forte governo decentralizzato rispetto a qualsiasi altro posto nel mondo».Al grande successo dei Tories si aggiunge l’affermazione incontestabile dello Scottish National Party, frutto più che evidente di quel 66% di elettori che si sono recati alle urne (alle ultime elezioni locali, la percentuale di votanti si aggirava intorno al 35%), ma il successo degli indipendentisti scozzesi che hanno fatto razzia di seggi – 56 su 59 disponibili – rivela in filigrana la mutazione diremmo genetica dell’elettorato che nel 2014 aveva perduto il referendum sulla secessione e che ora condurrà la sua battaglia all’interno della Camera dei Comuni e non più sulle barricate referendarie. Un monito indiretto all’Europa dei populismi, in testa a tutti quel Nigel Farage leader dell’Ukip (Partito per l’indipendenza del Regno Unito) che alle elezioni europee dello scorso anno si era attestato come primo partito e in questa consultazione si è aggiudicato un solo seggio, se pure – splendori e miserie dell’uninominale – con tre milioni di voti. Ma la lezione vale anche per Marine Le Pen e per tutti i separatisti, gli euroscettici e i razzisti continentali, la cui sirena anti–sistema produce consenso e qualche volta anche seggi, ma alla fine rimane un rivolo morto, periferico e in definitiva estraneo al dibattito politico.Detto ciò, il futuro per Cameron non sarà scevro di insidie. Nell’animus dei conservatori britannici alligna da sempre quel mai sopito desiderio che si riassume nel detto going it alone, ovvero, andar da soli nel mondo, una tentazione che potrebbe tradursi nel temuto “Brexit”, ovvero l’addio all’Europa nel referendum che si terrà tra due anni: un’Europa che l’establishment inglese vede come un guazzabuglio di discordie, di lungaggini, di tortuosi compromessi e di poca reale sostanza. Ma a far da contrappeso all’antica nostalgia per l’our splendid isolation, quello “splendido isolamento” che segnò la politica estera dell’impero alla fine dell’Ottocento, ci pensa la City: l’Europa rimane pur sempre un grande affare per gli inglesi, e gli opt–out (le clausole di esenzione che la Ue riconosce a Londra) sono la garanzia di un trattamento di favore. Da Bruxelles già profetizzano, non senza qualche ragione, che a Cameron si dovranno fare concessioni importanti: sui Trattati, sull’indipendenza di Londra nelle decisioni comunitarie, su tante piccole e meno piccole clausole. Nella speranza che agli inglesi questi “accomodamenti” possano bastare. Anche se dell’appeasement abbiamo un po’ tutti un ricordo nefasto. E a tirare troppo la corda si finisce fuori gioco. Ma questo Cameron lo sa. Vuol giocare alla grande la sua partita, e ha saputo dirlo ai sudditi di Sua Maestà britannica.