Opinioni

editoriale. Elezioni alla spagnola dall’urna spunta l’incertezza

Marca Olivetti sabato 18 gennaio 2014
Nel rendere note le tre proposte di riforma elettorale del Partito democratico, il sindaco Renzi ha incluso fra esse, oltre a una versione rivista del cosiddetto Mattarellum e al doppio turno di coalizione, anche un terzo sistema, che è stato definito "di tipo spagnolo". Fra i tre sistemi, quest’ultimo è il più estraneo alla tradizione italiana, che ha invece sperimentato la legge Mattarella fra il 1993 e il 2005 e che utilizza il doppio turno di coalizione per i Comuni con più di 15 mila abitanti (in combinazione con l’elezione diretta dei sindaci). Anche se nella proposta Renzi il sistema spagnolo viene sensibilmente modificato, è bene esporre i tratti essenziali del sistema elettorale ispanico qua talis e valutare l’impatto di un suo trapianto in Italia, prima di riflettere sulla sua variante corretta.L’attuale sistema elettorale spagnolo ha avuto origine negli anni della transizione dal franchismo alla democrazia. In particolare, nel 1977 un decreto reale stabilì le regole per le prime elezioni pluralistiche, per scegliere, quell’anno, le Cortes constituyentes, che avrebbero poi approvato la Costituzione del 1978. Tale sistema, inizialmente adottato come transitorio, è stato poi recepito nelle sue linee essenziali dall’art. 68 della Costituzione ed è stato mantenuto nella legge organica sul regime elettorale generale del 1985.Il principio di fondo del sistema è chiaro: esso si basa sul riparto proporzionale dei seggi fra liste di partito concorrenti. Tali liste sono bloccate, in quanto gli elettori possono votare per la lista ma non scegliere il singolo candidato. Una caratteristica importante del sistema è la circoscrizione elettorale, che coincide con la provincia. Ciò significa da un lato che le liste sono relativamente corte, in quanto esse coincidono con il numero di deputati da eleggere in ciascuna provincia. Ma soprattutto significa che i seggi sono ripartiti solo su base provinciale, senza alcun recupero nazionale dei seggi stessi, e da ciò deriva un rilevante effetto maggioritario: anche considerando che la Camera spagnola è di dimensioni ridotte (350 deputati), in ciascuna circoscrizione provinciale sono ripartiti pochi seggi. A gran parte delle circoscrizioni sono assegnati meno di sei seggi, il che significa che un partito, per conseguire un seggio, deve ottenere almeno un sesto dei voti (un po’ più del 16 per cento). Le cose cambiano un po’ nelle circoscrizioni più grandi (Madrid, Barcellona, Valencia): in quei casi anche partiti che ottengono fra il 3 e il 10 per cento possono conquistare un seggio (vi è uno sbarramento del 3 per cento, sempre su base provinciale).Il sistema spagnolo premia notevolmente i partiti principali (l’Ucd e il Psoe nel 1977 e nel 1979, poi il Pp e il Psoe dal 1982 in poi) e penalizza sia le forze minori sia i partiti nazionali di medie dimensioni (Alianza Popular e il Partido Comunista, che nel 1977 e nel 1979 ottennero circa il 10 per cento dei voti, conseguirono solo il 5 per cento dei seggi). Questa regola ha però un’eccezione: i partiti nazionalisti periferici (baschi, catalani, galiziani, canari, baleari), pur conseguendo una percentuale molto bassa del voto complessivo, ottengono un numero di deputati più o meno proporzionale ai voti ottenuti, che sono concentrati in una o più province.Nella sua applicazione nelle 11 elezioni legislative tenutesi dal 1977 al 2011, questo sistema ha prodotto alcuni risultati positivi: partiti forti e stabili, governi di legislatura e una relativamente frequente alternanza al governo. Più in generale, ha permesso il consolidamento della democrazia spagnola, un obiettivo che era fallito negli anni Trenta, sfociando nella guerra civile.Sono però emersi alcuni limiti, che sembrano accentuarsi negli ultimi anni. In primo luogo, i partiti spagnoli sono sempre più percepiti come organizzazioni chiuse e poco trasparenti, e molti criticano l’impossibilità per gli elettori di scegliere il singolo parlamentare. Inoltre il riparto dei seggi su base provinciale ha favorito anche i partiti nazionalisti periferici, rendendoli determinanti per la formazione dei governi, visto che per ben sei volte nessun grande partito ha conquistato la maggioranza dei seggi e ha dovuto appoggiarsi su tali partiti localistici, che hanno chiesto in cambio spostamenti di competenze a vantaggio delle loro regioni. Ciò ha contribuito a consolidare il regionalismo spagnolo, ma gli ha anche attribuito quel carattere di continua corsa al rialzo nella richiesta di nuove competenze che non è estranea, oggi, alla sua crisi profonda.Quale utilità potrebbe apportare all’Italia un sistema di questo tipo? Il suo dato positivo sta nell’essere un sistema proporzionale corretto, che dovrebbe mediare fra rappresentatività e stabilità di governo. Esso tuttavia – se trasposto integralmente – avrebbe almeno tre difetti. Non ristabilirebbe un rapporto fra l’elettorato e i singoli deputati, stante l’assenza di preferenze o di collegi uninominali. Non garantirebbe il conseguimento da parte di un partito della maggioranza assoluta (che molti reputano un obiettivo essenziale), in quanto i partiti italiani attuali sono meno forti di quelli spagnoli. Favorirebbe i localismi, non solo quello leghista, ma anche altri, che covano sotto la cenere, soprattutto al Sud. Oltretutto, in Spagna la stabilità di governo, anche in assenza di maggioranze assolute, è stata agevolata da alcuni meccanismi costituzionali che in Italia mancano: la sfiducia costruttiva, il potere di scioglimento delle Camere spettante al presidente del Governo, un bicameralismo asimmetrico in cui il Senato ha un ruolo subordinato.Ad alcuni di tali difetti tenta di porre rimedio la versione modificata del sistema spagnolo delineata nella proposta Renzi, in base alla quale i deputati verrebbero eletti in 118 circoscrizioni, in ciascuna delle quali i partiti dovrebbero presentare liste di 4 o di 5 candidati. L’elettore avrebbe a disposizione un voto per scegliere una lista di partito, e i seggi verrebbero ripartiti proporzionalmente fra le liste concorrenti. Il riparto avverrebbe su base provinciale, senza recupero nazionale dei resti. Al partito che su scala nazionale ottenesse il maggior numero di voti verrebbe attribuito un "premio" del 15 per cento dei seggi, in modo da consentirgli verosimilmente di conseguire la maggioranza parlamentare.Tale sistema richiama effettivamente il sistema elettorale spagnolo (in particolare per le liste bloccate e per il riparto dei seggi a livello provinciale), ma se ne discosta per alcuni aspetti, in particolare per il premio di maggioranza e per l’assenza di alcune circoscrizioni grandi che in Spagna hanno consentito ai partiti nazionali minori di ottenere una pur ridotta rappresentanza parlamentare.Esso appare per più aspetti problematico e potrebbe essere in tensione con gli standard fissati dalla Corte Costituzionale nella sentenza che ha dichiarato illegittima la legge 270/2005 con cui abbiamo votato nel 2006, nel 2008 e nel 2013: non consente all’elettore di scegliere i singoli deputati, penalizza eccessivamente le forze minori introducendo, di fatto, una clausola di sbarramento implicita pari al 20 per cento dei voti, e somma a questo sistema un corposo premio di maggioranza. Un sistema, insomma, che assomiglia non poco al Porcellum, del quale appare quasi una riedizione in salsa iberica.