Botta e risposta. La sfida degli educatori professionali in oratorio
Gentile direttore,
in merito al recente «H3O», l’Happening degli oratori di cui “Avvenire” ha dato riscontro, vorrei esprimere le mie perplessità sulla necessità di formare figure educative professionali e competenti. Mi pare che la carenza di fondo sia un’altra: è venuto a mancare, oggi, il senso originario, il “basamento” dell’Oratorio, cioè « ...accompagnare le persone, facendole crescere in un contesto di comunità, in cui centrali siano le relazioni... ». Se è vero che la sete di relazioni oggi è estremamente sentita dai giovani, è vero anche che le nostre comunità sono diventate aride, incapaci di mostrare la bellezza, la grandezza, la profondità della vita cristiana, nella sua particolare dimensione della fratellanza. In parrocchia, o all’Oratorio, e anche nei contesti normali di vita quotidiana (e parlo di esperienze viste e vissute, e non di pochi casi isolati), le comunità cristiane (!) si riconoscono per “come litigano” piuttosto che per “come si amano”. Stento a credere (ma sarei felice di sbagliarmi!) che a questa “carenza” di base si possa ovviare con corsi universitari di alta formazione.
Sarebbe riduttivo limitare la questione che lei solleva, gentile signora Manganelli, ai soli aspetti organizzativi della parrocchia: come se ad attese crescenti delle famiglie si trattasse di rispondere semplicemente con nuovi profili in organico. L’invito del direttore di rispondere alla sua puntuale riflessione mi offre l’occasione di riflettere su un “laboratorio” nel quale si incrociano l’innovazione nelle forme della presenza di una parrocchia nella società in continuo mutamento, la fedeltà al Vangelo dentro un mondo che lo cerca anche se lascia intendere il contrario, e le aspettative di chi della Chiesa è parte attiva e desidera che l’esperienza cristiana non sia offuscata. La Chiesa italiana non vuole diventare un’azienda, e sa che le molteplici sfide alle quali sente di dover dare adeguata risposta hanno una dimensione umana decisiva e irriducibile. Non si tratta di sbrigare pratiche in modo più efficiente o di elaborare strategie organizzative per incrementare la propria efficacia pratica, come se si sentisse il bisogno di offrire un prodotto sempre più adatto alla clientela. Quel che si innova nella pastorale ha – deve avere – come motivazione una crescente sintonia con il cuore dell’uomo così com’è, per essergli compagno di strada, anche senza darlo a vedere, come Gesù con i discepoli di Emmaus. Se la soluzione a un problema ha la forma esteriore di un piano più o meno ben studiato, è al cuore che lo muove che bisogna andare per capire che è solo un modo diverso di servire il Signore che parla anche oggi al cuore dei ragazzi negli oratori. È in questa chiave che va letta la proposta illustrata al recente Happening di introdurre figure di “educatori professionali” come supporto all’azione delle parrocchie, secondo un profilo e un inquadramento che non da ieri sono oggetto di riflessione e sperimentazione. Tutto avviene con passi misurati, senza fretta né impeti dirigisti: è un progetto che vuole “vestire” su misura il corpo vivo della Chiesa e intende adattarsi alle esigenze delle realtà concrete, ben sapendo che gli oratori cambiano insieme ai ragazzi che li frequentano e che la missione educativa alla quale devono restare fedeli è patrimonio prezioso della Chiesa. È negli oratori che si coltiva e si custodisce quell’attitudine alla relazione autentica e profonda della quale giustamente lei lamenta il venir meno. E se le parrocchie sono contagiate dall’individualismo dilagante della nostra società, l’oratorio costituisce ora più di prima la riserva alla quale le famiglie sanno di potersi rivolgere. Una figura di educatore adeguatamente selezionato e formato che presti la sua opera con la competenza e la dedizione di un professionista e la generosità di un volontario può essere un aiuto perché questo cammino di buone relazioni possa essere garantito con meno inciampi e più coerenza. Nessuno pensa a impiegati o a tecnici dell’educazione: una fisionomia così asettica e indifferente al contesto sarebbe estranea a ciò che muove una parrocchia, e verrebbe sentita e (non) accolta come tale. Se un’operazione come questa può prendere corpo è solo perché è in grado di aderire alla missione della comunità tra la gente. Specchio dell’anima di una parrocchia sono le realtà che prendono vita dal suo interno, le persone che si impegnano con i più diversi incarichi, lo spirito e il clima che si trasmette a chi viene in contatto con le sue attività. È un’energia che contagia anche chi opera con un contratto: che sia espressione coerente di ciò che deve comunicare dipende dalla qualità e dall’intensità dell’esperienza cristiana che si vive in quella comunità. In ogni attività, ministero, collaborazione di una parrocchia si trasmette la missione degli inizi di andare “fino ai confini”, mettendosi e rimettendosi in cammino per incontrare le persone, le famiglie, i ragazzi, i poveri, chiunque cerchi nella Chiesa una mano aperta e fraterna, senza badare al fatto che sia volontario o riceva un equo compenso. Pensare soluzioni nuove è un segno di fedeltà a questa esigenza profonda e inseparabile da ciò che la Chiesa è, fiduciosi che si potrà correggere la misura, l’organizzazione, la forma di un progetto ma che se ne deve scorgere (e far scorgere) sempre l’autenticità evangelica. L’invito costante del Papa a una “conversione pastorale” muove anche la scelta di immaginare nuove forme di collaborazione educativa all’interno della parrocchia, che si gioverà della presenza via via sempre più competente di chi può alleggerire il carico di incombenze concrete in capo ai sacerdoti consentendogli di essere quella trasparenza di Cristo che è il motivo per il quale hanno risposto alla sua chiamata. E forse anche noi semplici parrocchiani con l’amicizia e il consiglio potremo dare una mano a far sì che l’educatore professionale – là dove si dovesse adottare – capisca al servizio di cosa e di Chi ha accettato di mettere tempo, energie e sorriso.