La crisi politica assume caratteri istituzionali con le dimissioni dal governo dei quattro membri legati al Fli di Gianfranco Fini e dell’unico sottosegretario espresso dal Mpa di Raffaele Lombardo. E arriverà a una fase di verifica stringente subito dopo l’approvazione della legge di stabilità. L’epicentro della crisi è tutto interno al ceto politico, non investe se non marginalmente le questioni che assillano il Paese reale, il che rende il profilo di questa vicenda particolarmente confuso e complesso. Riportare al centro del confronto i problemi concreti – come, a più riprese, il capo dello Stato ha esortato a fare – non sarà facile, ma se non si imboccherà questa strada ci si può aspettare una stagione di giochi di palazzo difficili da comprendere e persino pericolosi.Il valore della stabilità è stato disatteso dalla rottura interna del partito di maggioranza relativa, che ha aperto una spirale di contrapposizioni (non esenti, come noto, da forti personalismi) sino all’esito attuale. Se sarà possibile dare continuità alla legislatura, in una situazione in cui pare che i rapporti di forza siano diversi nelle due Camere, è difficile dirlo. Al di là delle manovre – quella del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che punta a ottenere un voto di consenso al Senato per ostacolare la creazione di una maggioranza di ribaltone, e quella dei suoi diversi oppositori e alleati-competitori che, al contrario, vogliono sfiduciarlo alla Camera per imporgli le dimissioni –, nessuno dei due schieramenti è in grado di offrire una soluzione autosufficiente. L’ipotesi di un governo basato su una maggioranza costituita per la maggior parte dagli sconfitti delle ultime elezioni, sempre che essa esista in ambedue i rami del Parlamento, appare priva di qualunque coesione politica oltre che di un minimo di prospettiva, quella di una conferma millimetrica della maggioranza uscente nonostante la secessione dei seguaci di Fini porterebbe anch’essa a una estenuante e paralizzante guerriglia parlamentare quotidiana.La pura logica dei rapporti di forza parlamentari delinea una situazione senza sbocco. Anche il "gioco del cerino", cioè il tentativo di ciascuno di attribuire al suo avversario la responsabilità dell’eventuale scioglimento delle Camere, ha senso solo nell’ambito del gioco politico e della sua amplificazione mediatica. Il rischio di un ulteriore scollamento di quello che una volta si chiamava Paese legale dal Paese reale appare altissimo. Prima di arrivare a nuove fasi traumatiche, che peraltro faciliterebbero le manovre speculative contro il debito italiano, e prima di precipitare in una corsa alle urne che non necessariamente risolverebbe il problema e potrebbe anzi aggravarlo, sarebbe auspicabile da parte di tutte le forze responsabili una breve e seria pausa di riflessione, per verificare se possono essere definite convergenze sufficienti per affrontare i problemi della ripresa, dell’occupazione, della famiglia e della scuola.Se questo spazio esiste, si dovrà naturalmente discutere se spetta al premier uscente, che ha ricevuto un chiaro mandato elettorale sulla base delle attuali norme di legge, guidare l’esecutivo che realizzi la piattaforma concordata o se egli stesso è disposto a indicare per quel compito una personalità meno implicata nelle recenti controversie. Se invece si dovesse mettere il carro davanti ai buoi, con reciproche interdizioni, si rischierebbe di finire diritti e filati in una crisi al buio, con una accentuazione parossistica delle contrapposizioni nel ceto politico che certe operazioni mediatiche cercano irresponsabilmente di trasferire al livello dei comportamenti sociali. Per fortuna senza grande successo, almeno per ora.