Opinioni

Conciliare maternità e lavoro. Assumete la famiglia

Francesco Riccardi mercoledì 25 maggio 2011
Non sono 800mila in soli due anni, come qualcuno ha capito, leggendo male i dati Istat. Ma le madri costrette a licenziarsi dopo aver avuto un figlio rappresentano una quota comunque significativa. Sicuramente scandalosa.Lasciando da parte le donne nate tra il 1943 e il 1963 – che per ragioni anagrafiche raccontano discriminazioni subite ormai qualche decennio fa – le madri che denunciano vessazioni da parte dei datori di lavoro sono il 13 per cento di quelle nate dopo il 1973. Ci parlano dunque della realtà di oggi, al massimo dell’ultimo lustro, visto che l’età media per il primo figlio si è ormai attestata sui 30 anni. Significa che, in questi anni Duemila, ci sono ancora molti, troppi imprenditori che fanno firmare lettere di dimissioni in bianco alle giovani donne. Rinunce da utilizzare non appena si presenta il "problema" di una gravidanza. Vuol dire che, mentre in questo decennio la produzione di beni e servizi è stata completamente rivoluzionata dai progressi dell’informatica e dalla globalizzazione, in Italia troppe aziende continuano a considerare inconciliabili la maternità e una piena attività professionale. Tanto da arrivare a mobbizzare, a fare pressioni, a creare condizioni insopportabili per le donne, costrette alla fine ad arrendersi e a lasciare il posto. Oppure, ancora più drammaticamente, a rinunciare alla maternità.C’è da stropicciarsi gli occhi per l’arretratezza di una parte non trascurabile della nostra classe imprenditoriale. Eppure oggi gli strumenti per evitare gli eventuali aggravi di costo legati a una maternità sono a disposizione, così come leggi incentivanti per progetti di conciliazione famiglia-lavoro. Le norme sul part-time sono state riviste più volte per equilibrare le richieste delle lavoratrici da un lato e le esigenze delle imprese dall’altro. Sono state introdotte clausole elastiche, reversibilità, possibilità di effettuare ore di straordinario. E ancora ci sono le formule verticali, quelle orizzontali, il job sharing (lavoro condiviso).Certo, si può migliorare ulteriormente la "cassetta degli attrezzi" a disposizione, ma ciò che risulta grandemente deficitario, da noi, è un reale cambiamento nei modelli organizzativi delle imprese. Solo poche aziende hanno compiuto il necessario salto culturale verso una flessibilità non unilaterale, con orari elastici e "personalizzati", con una valutazione basata più sui risultati che sulla presenza. Solo da poco il sindacato si è impegnato nella contrattazione di secondo livello per conquistare servizi di cura e agevolazioni. Occorre invece promuovere modelli strutturali che premino il merito, le capacità organizzative e di risposta, l’inventiva femminile, lasciando però spazio e tempo ai compiti di cura familiare. È fondamentale garantire che le donne possano liberamente scegliere di avere un figlio – e magari due o tre, quanti ne desiderano – senza per questo perdere il posto o vedersi troncare la carriera. E che possano godere della serenità sufficiente per poter seguire la crescita dei figli senza rinunciare a dare il loro contributo nel lavoro. Negare l’identità profonda delle donne, delle madri (ma potremmo parlare pure dei padri), forzarne l’omologazione dei comportamenti non porta a un autentico sviluppo.Domani Emma Marcegaglia, che è imprenditrice e madre, presiederà l’assemblea della Confindustria. Sarebbe importante che la sua organizzazione desse due segnali forti. Il primo, che le discriminazioni e le forzature ai danni delle donne nelle aziende sono incompatibili con l’appartenenza a una moderna associazione di rappresentanza. Il secondo, che esiste una riforma "a costo zero" sulla quale è possibile impegnarsi per tirare fuori il Paese dalle secche: assumere la famiglia, con i suoi bisogni e le sue potenzialità, come la chiave del futuro possibile. L’alternativa infatti è il declino, l’annuncio di deserto che sperimentiamo in queste ore: migliaia di posti di lavoro bruciati, la rabbia di persone senza speranza, i 7mila bambini in meno nati in Italia lo scorso anno.