Opinioni

Il ritiro dall'Afghanistan deciso da Obama. Una scelta guardando al voto che può rafforzare i taleban

Riccardo Redaelli venerdì 24 giugno 2011
«Via dalle sabbie dei deserti mediorientali»: alla fine della discussa presidenza Bush, era una frase che si ripeteva spesso a Washington, intendendo una riduzione dell’impegno statunitense nei tanti fronti aperti in quella regione. Per alcuni anni Obama non ha seguito il consiglio: il disimpegno dall’Iraq è continuato con le scadenze temporali del suo predecessore, mentre si è rafforzato l’impegno militare in Afghanistan. Laggiù si è cercato di adottare le stesse strategie che erano risultate vincenti in Iraq, ossia il Surge (l’aumento di forze militari per sconfiggere i ribelli con un’offensiva rapida e massiccia) e la "nazionalizzazione" del conflitto, ossia la crescita più rapida possibile della quantità e della qualità dei soldati afghani. Se il Surge aveva funzionato in Iraq – ma in realtà Washington ne ha sopravvalutato gli effetti reali –, non così è stato nel Paese dell’Asia centrale. I taleban si sono rivelati molto più ostici dei guerriglieri jihadisti attivi dentro e fuori Baghdad, e i progressi militari molto meno decisivi. Inoltre, più passa il tempo e più diminuisce il consenso per questa guerra ormai decennale fra l’opinione pubblica americana. Così, forte dell’eliminazione di Osama Benladen, Obama ha annunciato il ritiro, in tempi relativamente rapidi, di trentamila soldati. Una mossa tutta di politica interna, con l’occhio rivolto alle elezioni presidenziali del 2012, che viene dopo la svogliata partecipazione alle incursioni aeree in Libia e la sostanziale passività davanti ai massacri siriani. Se il Partito repubblicano sembra prudente nell’avversare una decisione popolare – agli americani in fondo importa più distruggere al-Qaeda che non stabilizzare l’Afghanistan –, l’establishment militare non ha fatto mistero di considerarla una decisione sbagliata e pericolosa. Sbagliata, perché ritenuta troppo frettolosa: le offensive della Nato, costate la vita di così tanti militari e civili innocenti, hanno dato sì risultati sul campo, ma limitati e reversibili. Indebolire le forze dell’Alleanza rischia di vanificare quanto ottenuto finora. E ancor più che sbagliata, pericolosa, dato che può galvanizzare i taleban (il cui morale, in effetti, è ben più alto del nostro) e spingerli a un irrigidimento nelle trattative con il governo di Kabul e con la stessa Nato. L’obiettivo dei militari era invece quello di forzarli a trattare da condizioni di debolezza, non di forza come appare ora. Ma la conseguenza più scivolosa è potenzialmente per la stessa Alleanza atlantica. Sono ormai tante le voci, sia pur lontane dai microfoni, che ammettono sconsolate come la Nato abbia combattuto in Afghanistan la sua prima guerra vera e abbia fatto di tutto per perderla. Troppi egoismi nazionali, troppe differenze nelle regole d’ingaggio dei vari contingenti. Una rabbia crescente fra canadesi, britannici e olandesi – impegnati nel sud-est, la zona ove i combattimenti sono più duri – contro gli altri Paesi che non hanno permesso una rotazione sul fronte. Ora, Canada, Olanda e Francia (proprio ieri) hanno deciso di ritirare progressivamente le proprie truppe dai combattimenti. Con il rientro dei primi contingenti statunitensi chi li sostituirà? Vi è il rischio concreto di una smobilitazione sempre più accelerata da parte delle nazioni occidentali, i cui governi non vedono l’ora di lasciare un Paese così intrattabile, con l’alibi di riconsegnare il controllo della sicurezza all’esercito afghano, che è, ahimè, lontanissimo dall’essere pronto. In situazioni simili sono le percezioni della realtà, più che la realtà stessa, a risultare decisive: da questo punto di vista, l’annuncio della riduzione dell’impegno militare è un ulteriore ostacolo alla strategia dei militari. Certo, correre via dalle sabbie del deserto può aiutare a vincere un’elezione. Ma chiunque sia a sedersi domani alla Casa Bianca si ritroverà a fare i conti con le conseguenze di decisioni affrettate.