Di norma, sulle rive del Potomac, al termine delle lunghe notti della capitale americana, quasi sempre sorge il sole. Questo detto, in voga tra le élite di Washington, indica che su questioni cruciali, specialmente di finanza pubblica, dopo confronti (e scontri) molto aspri, tra Casa Bianca e Congresso solitamente si giunge a un compresso nell’interesse di tutti gli americani (e di coloro come noi europei che, ci piaccia o no, a essi siamo legati da tanti fili). Quindi, da studioso che ha vissuto 18 anni a Washington, sono ottimista: all’alba del 2 agosto (ma non prima) un accordo si troverà, evitando tanto un’insolvenza tecnica quanto un abisso tra esecutivo e legislativo sulle grandi linee di politica economica. Per bene afferrare quale è il nodo tecnico del problema occorre tenere presente che, negli Stati Uniti, presidente e Congresso sono votati in modo differente, con sistemi diversi e pure da elettori differenti. Il governo non è espressione del Parlamento, ma gode di una propria autorità derivante dai "grandi elettori". Parimenti, il Congresso risponde ai propri elettori. L’esecutivo federale ha competenza primaria in materia di difesa e politica estera, non di finanza pubblica, istruzione, temi sociali. Per questa ragione, il bilancio federale non nasce con una legge finanziaria proposta dalla Casa Bianca, ma all’interno di una Commissione della Camera; il presidente può respingerlo, ma se il bilancio viene di nuovo approvato dal Parlamento a maggioranza qualificata, il presidente o lo accetta o lascia la carica al suo vice per il resto del mandato (questa è una delle ragioni per cui la scelta del vice presidente è tanto importante).In questo quadro, il livello di debito pubblico deve essere "autorizzato" dal Congresso, in base al comma 8 dell’articolo 1 della Costituzione. Se non autorizzato, nessun ministro del Tesoro può con un decreto dare il via all’emissione di titoli di Stato (come fa il nostro ministro delle Finanze). L’ultimo aumento del massimale (in gergo "il tetto") del debito è stato autorizzato dal Congresso il 12 febbraio 2010. Quale sia oggi il livello del debito pubblico americano è oggetto di contenzioso. Il debito del governo federale in senso stretto si aggira sul 70% del Pil. Aggiungendo quello degli Stati e degli enti locali (principalmente alcune Contee) si arriva al 100%. Se poi si tiene conto anche del debito delle due maxiagenzie (ora nazionalizzate) di intermediazione di mutui immobiliari si tocca il 130%. Il dibattito, però, non è su questi aspetti tecnici, ma su una politica economica che privilegerebbe la spesa anche al costo di inasprimenti fiscali. È quanto intende fare la Casa Bianca. Ma è quanto vuole arginare il Congresso, impedendo ulteriore indebitamento e quindi anche il rifinanziamento di alcuni milioni di titoli di Stato che scadono il 2 agosto; senza nuove emissioni, chi li ha comprati si troverà in tasca obbligazioni senza valore almeno temporaneamente, ossia sino a quando non si sarà trovato un accordo. Sarebbe miope pensare che il problema riguardi unicamente e principalmente gli americani. Si è appena chiusa una settimana di grande turbolenza sui mercati mondiali, turbolenza rivolta in grande misura nei confronti dell’Italia, il cui programma di politica economica è considerato dalle Borse (a torto o a ragione) inferiore a quanto necessario. L’Università Cattolica di Lovanio ha creato un nuovo indice dei movimenti finanziari, il FIX (Fear Index o Indice della Paura): non promette nulla di buono, per noi e per altri, in caso di agitazione dei mercati americani ed internazionali. Noi saremo solo spettatori della lunga notte del debito Usa. Tuttavia, qualcosa di nostro potremmo e dovremmo pur fare per mettere ordine in casa nostra.