Opinioni

La filantropia Usa (e non d'Europa). Altruismo e marketing

Giuseppe Pennisi venerdì 6 agosto 2010
In meno di sei settimane, 40 miliardari americani hanno risposto all’invito di Bill Gates e di Warren Buffett di destinare, in vita o al momento della fine della loro avventura terrena, almeno la metà della propria ricchezza a scopi filantropici. L’obiettivo è di giungere a 600 miliardi di dollari e dare un contributo fondamentale ai "Millennium Development Goals" (gli Obiettivi di sviluppo del millennio) in termini d’istruzione, salute, nutrizione ed opportunità d’ascesa sociale. Ho studiato negli Usa e vi ho vissuto per 15 anni: la cifra impegnata in questo primo mese e mezzo indica che il traguardo può essere centrato prima del prossimo Capodanno.La filantropia è parte del Dna del big business (grande affare) Usa, non solo in quanto l’arricchimento viene visto con una finalità sociale (non unicamente particolaristica), ma anche per ragioni educative. Il magnate dell’acciaio Andrew Carnegie lasciò ai propri figli soltanto la "legittima" per il timore che «si rammollissero», destinando due terzi del suo immenso patrimonio al Carnegie Endowment For Peace, alla Carnegie Hall, alla Carnegie Mellon University, e chiedendo che la sua lapide avesse, oltre al nome e al cognome e alle date di nascita e di morte, la scritta :«Ebbe la fortuna di avere collaboratori sempre molto più brillanti di lui».La filantropia americana non ha, però, solo questo volto. È pure parte delle attività di "marketing" dell’immagine dell’impresa, quindi particolarmente sensibile alle istanze di gruppi che, ancorché minoritari nella società, riescono ad avere un forte visibilità mediatica e, quindi, peso politico. È anche portatrice di visioni del benessere sociale, quelle dei benefattori e delle lobby che hanno su di essi influenza. Su alcuni temi (ad esempio quelli relativi all’inizio e alla fine della vita terrena, alla famiglia), possono differire oppure divergere da quelle dei beneficiati o di altre concezioni di ciò che contribuisce allo sviluppo materiale e umano. È auspicabile che il comitato che dovrà gestire questa immensa somma di aiuti non ascolti una campana sola, ma tenga conto sia delle culture dei beneficiari sia della difesa della vita in ogni sua fase. Ciò è tanto più necessario poiché la filantropia americana è incentivata da forti sgravi tributari: gli stessi esperti Usa di scienza delle finanze sostengono che con i soldi di tutti (e con il mancato gettito) occorre una visione che tenga adeguato conto del punto di vista pure di chi non è in condizione di essere parimenti generoso.Nonostante questi aspetti, occorre chiedersi perché la filantropia non abbia avuto un vero sviluppo in Europa Occidentale in generale ed in Italia in particolare. Non sono mancati e non mancano casi di mecenatismo e di beneficenza. Non sono, però, incoraggiati da sgravi tributari che nel nostro Paese, al 19 per cento delle somme elargite, paiono presumere che la filantropia sia associata ai livelli più bassi di reddito e di carico tributario. Soprattutto, dall’inizio del Novecento in Europa è prevalsa la concezione che i "beni sociali" debbano essere forniti dallo Stato in tutte le sue diramazioni. Ci si deve chiedere se questa visione è ancora in linea con uno Stato costretto, dall’integrazione economica internazionale, a fare marcia indietro in molti campi perché con una spesa pubblica al 50 per cento del Pil non si può competere con chi la ha al 30 o anche meno. E questo è decisivo per incoraggiare Terzo Settore e responsabilità sociale d’impresa.