Opinioni

Gli esiti del braccio di ferro sul debito Usa. Un presidente più debole in una democrazia forte

Vittorio E. Parsi martedì 2 agosto 2011
Un'America più consapevole del suo crescente affaticamento strutturale nei confronti del sistema internazionale, con ulteriori ragioni per accarezzare quella prospettiva di drastico ridimensionamento dei suoi impegni (e delle sue responsabilità) nel mondo, un Congresso più forte e una presidenza più debole, una limitazione del potere di ricatto delle ali più oltranziste di democratici e repubblicani, ma anche la conferma che delle grandi ambizioni obamiane di riformare l’America dall’interno, di cambiare non solo il volto ma l’ossatura degli Stati Uniti, sopravvive ben poco, a circa 15 mesi dalle elezioni presidenziali del 2012. È questo, in estrema sintesi, il bilancio politico che è possibile tracciare dello storico accordo raggiunto domenica sera dal Congresso e dal presidente. Accordo storico perché evita il default dell’economia simbolo dello stesso sistema capitalistico globalizzato: parliamoci chiaro, il "fallimento" del Tesoro degli Stati Uniti avrebbe avuto per i mercati lo stesso traumatico significato che potrebbe avere per i bambini vedere Babbo Natale che organizza un barbecue a base di carne di renna per il cenone della Vigilia (e fa niente se siamo ad agosto). Ma un accordo storico anche perché raggiunto dopo un braccio di ferro inedito tra presidenza e Congresso, che è andato ben oltre il pur aspro contenzioso tra esecutivo e legislativo sulla questione del "big government" e delle tasse. Ancora una volta il motto "No taxation without representation" si conferma negli Stati Uniti tutt’altro che un modo di dire. Nonostante tutto il male che è stato detto e scritto in questi giorni del sistema politico americano, proprio l’asprezza del confronto, con i cinici baratti proposti e tentati, ci ricorda che, in una democrazia rappresentativa, mettere le mani nelle tasche dei cittadini è un’operazione da ponderare con estrema attenzione. Si potrà discutere delle sperequazioni della società americana (che sono tante e in crescita), ma resta vero che neppure portare il sistema sull’orlo del baratro consente di aver più facilmente ragione dei propri avversari politici.Con un presidente che nell’annunciare l’inizio del ritiro del "surge" dall’Afghanistan, poche settimane fa, si era spinto a parlare della necessità di «dedicarsi innanzitutto alla ricostruzione dell’America» prima di pensare a quella di altri Paesi, il concetto stesso di "presidenza imperiale" sembra conoscere una nuova e duratura – se non definitiva – eclissi. Significativamente il budget della Difesa subirà importanti decurtazioni nei prossimi dieci anni, nei quali si spera che alla riduzione degli impegni in Iraq e Afghanistan non facciano da contraltare nuove e costose iniziative militari. Le forme di partecipazione "light" alla campagna di Libia sono, in questo senso, probabilmente paradigmatiche del nuovo corso.Ma una presidenza meno imperiale verso l’esterno rischia di essere una presidenza complessivamente meno forte, perché proprio nella politica domestica – in ossequio al principio della divisione dei poteri – il presidente trova pesi e contrappesi alla sua azione. E da ieri ne trova uno in più. Perché le modalità con cui il Congresso è riuscito a trasformare un atto considerato a lungo politicamente "dovuto" (come l’autorizzazione a coprire con il deficit le spese relative a politiche già approvate dallo stesso Congresso) in uno strumento di guerriglia e ricatto nei confronti del presidente lima ulteriormente gli artigli dell’aquila. Se in tanti possono quindi cantare vittoria – chi per avere impedito l’introduzione di nuove tasse o il taglio degli sgravi fiscali per i ricchi voluti da Bush, chi per aver salvato la sua riforma sanitaria da un nuovo mortale agguato, chi per aver impedito "agli altri" di trionfare – resta il fatto che Obama si avvicina alle prossime presidenziali un po’ più ammaccato, confermando quell’immagine di un brillante oratore – «capace di ascolta prima di parlare e di parlare invece di fare» – che trova sempre più proseliti anche tra tanti suoi sostenitori delusi. Ma forse anche lui potrà sperare a novembre in un’opposizione confusa e pasticciona e senza "fenomeni" all’orizzonte, chissà...