Opinioni

Al di là delle partigianerie, i nodi non saranno sciolti. Ma non chiamatelo «processo breve»

Danilo Paolini giovedì 14 aprile 2011
Alzi la mano chi desidera un processo lungo, estenuante e spesso inconcludente come gran parte di quelli che si celebrano (o si trascinano) per anni nei tribunali italiani. Una legge sul «processo breve», ovvero un provvedimento che riuscisse davvero a garantire l’amministrazione della giustizia in tempi certi e ragionevoli, sarebbe perciò l’uovo di Colombo, oltre che la medicina più indicata per curare il male di cui soffre questo settore. Già, perché se si riuscisse a guardare l’Italia senza le lenti deformanti della partigianeria (ormai vero sport nazionale, al pari del calcio), si vedrebbe un Paese stritolato dalla "questione giudiziaria".Con questa definizione non vanno intese, però, l’urgenza dell’attuale presidente del Consiglio di risolvere i suoi guai con taluni magistrati di Milano e la costanza (non priva di forzature procedurali, né, talvolta, perfino di venature d’astio) con la quale questi ultimi lo incalzano ormai da quasi vent’anni, bensì proprio la lentezza dei processi civili e penali. La stessa che ci procura continue condanne a Strasburgo per «irragionevole durata» delle cause. E che ci vede dietro a diversi Stati in via di sviluppo nella classifica mondiale dei luoghi dove occorre più tempo per recuperare un credito: 1.210 giorni, più di tre anni.Ebbene, ieri, in una Camera dei deputati in tumulto, ha compiuto il giro di boa un disegno di legge d’iniziativa parlamentare che contiene proprio «misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, in attuazione dell’articolo 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». A che cosa servirà, una volta che avrà incassato anche il voto favorevole del Senato ed entrerà in vigore, presumibilmente subito dopo Pasqua? La risposta degli oppositori è: a evitare a Silvio Berlusconi una condanna in primo grado nel processo Mills (comunque destinato a finire nel nulla prima della sentenza definitiva), accorciando di qualche mese i termini della prescrizione grazie a una norma infilata nel testo dal relatore Paniz del Pdl, dopo che la maggioranza aveva accettato, come segnale di distensione e apertura al dialogo sulla più ampia riforma costituzionale della giustizia proposta dal ministro Alfano, di cancellare la norma transitoria che consentiva l’applicazione della legge ai processi in corso, inclusi quelli che vedono imputato il premier.La versione della maggioranza e del governo è, invece, che il provvedimento è necessario in quanto mette al riparo tutti i cittadini dalla eccessiva lunghezza dei processi, dichiarandone l’estinzione qualora non si concludano in tre anni per il primo grado, due anni per l’appello e diciotto mesi per l’eventuale sentenza di legittimità, perché una giustizia che arriva più tardi è comunque una giustizia negata.Entrambe le risposte sono vere. Del resto, l’una non esclude l’altra. Sia la domanda, sia le risposte, tuttavia, non sembrano centrate. Sarebbe meglio chiedersi, infatti, a che cosa non servirà questa legge, per convenzione e sintesi giornalistica definita «sul processo breve». E la risposta è che, purtroppo, non servirà ad abbreviare i tempi dei processi. Come tutti i testi analoghi da cui è stata preceduta (approvati, come la legge Pinto del 2001 o la "ex-Cirielli" del 2005, oppure rimasti allo stadio di proposta, come quella del 2006 firmata anche dall’attuale capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro, allora nell’Ulivo, e ancor prima, nel 2004, da cinque suoi compagni di partito nei Ds, tra i quali l’attuale consigliere "laico" del Csm Guido Calvi) potrà soltanto prendere atto, di volta in volta, di un fallimento: quello di uno Stato che non riesce a garantire una sentenza definitiva in tempi ragionevoli. Ma questa è la radiografia del male, non la cura.