Lo scenario politicamente disgustoso, di cui si sono resi protagonisti alcuni governi europei sulla vicenda dei clandestini tunisini affluiti in Italia in queste settimane, sconcerta assai di più del modo confuso con il quale il governo italiano e le regioni hanno gestito (con l’occhio sia alla pancia di certo elettorato sia all’oggettività dei problemi) una situazione per molti aspetti non facile. Ma questa vicenda non sarà del tutto inutile se aiuterà l’opinione pubblica italiana ad affrontare la domanda che, in maniera un po’ sommaria, il ministro dell’Interno ha posto, provocatoriamente, lunedì: esiste ancora un interesse nazionale italiano al processo di integrazione europea?Si tratta di una domanda dolorosa, per quello che per decenni è stato il Paese più europeista del continente. Un europeismo "a prescindere", dalle nobili radici. Avevamo "fatto da soli" già in precedenza, durante il fascismo. Ammaestrati da questa esperienza, sulla scia dell’europeismo cristianamente ispirato di Alcide De Gasperi e del federalismo laico di Altiero Spinelli, gli uomini di governo italiani sono stati per decenni accaniti sostenitori dell’obiettivo degli Stati Uniti d’Europa. In questo avevano una sponda sicura nella Germania post-bellica, quella della Repubblica di Bonn, socialdemocratica e democristiana, così diversa dalla Germania di Berlino di questo inizio secolo, guidata da politici provenienti dall’ex Ddr e immobilizzata nel suo ritrovato gigantismo un po’ come l’America repubblicana ed isolazionista degli anni Venti del Novecento.Questo europeismo "a prescindere" non era certo privo di lati oscuri, quali ad esempio l’abituale ritardo nell’implementazione delle direttive comunitarie. Ma portava comunque l’Italia della Prima Repubblica ad ingoiare l’arroganza dei governi francesi, con la loro costitutiva propensione alla
grandeur da cortile (si ricordino le svalutazioni imposte alla lira da Mitterrand nei primi anni Ottanta, dopo il fallimento delle nazionalizzazioni targate Psf, o, ancor prima, all’ipernazionalismo di De Gaulle). Ai governi italiani degli anni Ottanta e Novanta si deve, poi, un’azione determinata sia a sostegno del progetto di Costituzione approvato dal Parlamento europeo nel 1984 (ma rigettato dagli Stati membri) sia nel cammino verso Maastricht (nel quale Andreotti e De Michelis non ebbero timore di scontrarsi frontalmente con un gigante politico come la signora Thatcher).La classe politica della cosiddetta Seconda Repubblica ha invece avuto un altro approccio: le forze di centrosinistra hanno assunto l’eredità del vecchio europeismo "a prescindere", mentre il centrodestra (soprattutto, ma non solo, la Lega) ha gradualmente elaborato una certa dose di euroscetticismo, sia pure rimasto a un confuso stato emozionale. Entrambi gli atteggiamenti, peraltro, non hanno preso fino in fondo atto che, dopo Maastricht, la realtà dell’Europa è profondamente mutata, sia rispetto alla realtà fragile degli anni Sessanta e Settanta, sia rispetto ai sogni federalisti.L’«Europa della sussidiarietà» è una unione costituzionale di Stati che rimangono sovrani, ma vedono la loro statualità radicalmente trasformata dai processi di integrazione, al punto che quasi nessun settore del diritto interno, anche costituzionale, è rimasto estraneo alle conseguenze di essi. Un tale assetto richiede approcci nuovi, che devono sapientemente combinare visione europea e difesa in Europa dell’interesse nazionale, nella consapevolezza che la tutela di quest’ultimo può richiedere anche strappi. Per questo motivo anche l’appello del capo dello Stato, a escludere conseguenze del voto europeo anti-italiano di lunedì, è figlio di un approccio mentale vecchio.Chi cercasse un modello politico, ne potrebbe trovare uno nella storia italiana di alcuni decenni orsono: Giovanni Marcora, ex partigiano, dc basista lombardo e ministro dell’Agricoltura dal 1974 al 1982, era un europeista convinto, ma era anche il terrore dei ministri dell’Agricoltura d’Europa per la "feroce" determinazione – fatta di diplomazia abile e di capacità di scontro – con cui proteggeva in Europa gli interessi dell’agricoltura italica. Come del resto avevano sempre fatto belgi e olandesi, altre colonne dell’europeismo post-bellico.Abbandonando europeismo "a prescindere" ed euroscetticismo, o forse combinandone alcuni aspetti, è in uno sguardo simile che si può trovare la chiave per "stare" in Europa senza sciocche illusioni, ma nella consapevolezza che, se le nazioni sono un plebiscito quotidiano, anche l’integrazione europea è una complessa dinamica di negoziati, conflitti e compromessi ove l’Italia deve elaborare un modo adulto per essere presente e influente, da Stato fondatore e conformemente all’unicità della sua storia e alle sue potenzialità politiche ed economiche.