Il
computer, quando se lo trova davanti, è facile che lo guardi più con curiosità che con sospetto. Per uno che scrive ancora e sempre a mano, a matita – ce n’è una batteria sempre pronta sul tavolo, assieme a gomma e temperino – il pc dev’essere uno strano oggetto. L’altro giorno s’è fatto fotografare con un
smartphone in mano, mentre gli spiegavano come funziona l’applicazione di
YouCat dedicata ai palmari. Sorrideva, ma chissà cosa pensava. Se ci si fermasse a questo, qualcuno potrebbe definire Benedetto XVI fermo alla preistoria della comunicazione. Poi, come ieri pomeriggio, succede che lo senti parlare in televisione, rispondere con semplicità e chiarezza alle semplici domande della gente comune – perché soffriamo? che vuol dire che risorgeremo? perché...? – e capisci un sacco di cose: perché mese dopo mese aumentano le presenze alle udienze, e come mai anche i viaggi annunciati come "impossibili", dagli Stati Uniti a Israele, dalla Turchia alla Gran Bretagna, si siano sempre risolti in qualcosa di molto vicino a un
trionfo. E molto altro ancora.Non curandosi minimamente del peso degli stereotipi attribuitigli, Papa Ratzinger ha compiuto una scelta di comunicazione tanto sorprendente quanto coraggiosa, all’inizio da qualcuno anche criticata. In un’epoca in cui sembra impossibile perfino immaginare che un qualsiasi messaggio possa "bucare" senza passare prima attraverso il filtro di
imagemakers o
suggestionmakers, Benedetto XVI ha compiuto una scelta radicalmente opposta, privilegiando la parole rivolta direttamente all’intelligenza, piuttosto che alla suggestione, la parola selezionata con cura e dedicata "a...", piuttosto che quella mitragliata sulla platea, la parola che sollecita il ragionamento anziché quella che punta solo a convincere stordendo come un mantra.Da qui nascono le diverse forme di comunicare che Papa Benedetto ha usato e continua a usare. Scelte pensando a chi lo ascolta, e rispettandolo, ponendosi sempre al suo livello. Linguaggi diversi per interlocutori diversi, ma ognuno a suo modo ugualmente affascinate e coinvolgente. Ecco allora i discorsi così diversi dalle chatechesi delle udienze generali, così come dalle omelie; ed ecco anche i libri, quelli che ha scritto durante questi sei anni o l’inedito libro-intervista per raccontarsi e raccontare la Chiesa nella sua grandezza, ma anche nelle sue miserie e debolezze. Fino al "botta e risposta" di ieri in televisione, a rispondere a quelle "domande su Gesù" che saranno pure sempre le stesse, ma sono le domande di fondo dell’esistere umano.Nell’areopago moderno, imbottito di elettronica, il Papa che pretende di riuscire a parlare a ciascuno, uno per uno, si è preso un rischio inaudito. E, da Ratisbona in avanti, non sono certo mancati gli inciampi, quando questo stile diretto s’è riversato nell’universo a banda larga dove l’informazione vive in tempo reale. Inciampi però, mai sconfitte. Perché alla fine quella parola sempre pensata, dedicata, diretta, ogni volta è riuscita a spiegarsi e a spiegare. A "bucare".Propaganda? No, realtà. Semplice. Chi ieri sera avesse visitato i "sepolcri" nelle chiese romane, si sarebbe forse stupito. Non, in preghiera, uno sparuto drappello di anziani residuati cattolici, ma tante coppie, famiglie intere, e soprattutto un esercito di giovani. Nel 2005, alla vigilia della Giornata mondiale della Gioventù a Colonia, la prima di Benedetto XVI, molti predissero: sarà l’ultima. Perché, spiegarono, «Papa Ratzinger non ha lo stesso carisma di Wojtyla». Vero. Ne ha un altro. È proprio questa, alla fine, la grandezza della Chiesa.