Opinioni

La sentenza della Corte Suprema sui videogiochi violenti. Se per «libertà di espressione» si rinuncia alla difesa dei più piccoli

Andrea Lavazza mercoledì 29 giugno 2011
La sentenza con cui lunedì la Corte suprema degli Stati Uniti ha bocciato una legge californiana che vietava la vendita ai minorenni di videogiochi violenti ha implicitamente riaffermato il no a qualsiasi tipo di paternalismo normativo (ovvero, decidere che cosa è bene per un individuo al di là del suo giudizio), anche nei confronti di soggetti che la legge è tenuta a proteggere. La motivazione affonda nel Primo emendamento, che tutela la libertà di parola. Nel caso costituzionale americano, la Freedom of Speech ha uno statuto del tutto speciale, dato che viene difesa oltre il principio generale di libertà di azione, che vale per quanto non si danneggino altre persone. La "parola" gode infatti di un’ulteriore protezione da interferenze, anche quando colpisce altri soggetti. Ciò perché essa è ritenuta capace di stimolare processi deliberativi autonomi negli ascoltatori, grazie ai quali essi controllano consapevolmente le proprie risposte. Anche se le parole (o le immagini) feriscono, si ritiene che le persone possano "difendersi" e comunque giovarsi della libertà d’espressione, fondamentale per la vita democratica. Le influenze sociali che bypassano l’autonomia dei soggetti si considerano implicitamente trascurabili. Ma quello che le neuroscienze cominciano a evidenziare, invece, è che i meccanismi che minano l’autonomia in alcuni casi non sono per nulla secondari. Ciò discende principalmente dal fatto che gli esseri umani hanno una tendenza innata a imitare e ad assimilare il comportamento osservato, tendenza che opera a vari livelli e spesso è automatica e inconscia. E le prove scientifiche oggi disponibili segnalano una forte influenza dei programmi violenti sul tasso di aggressività dei giovani spettatori. E ancor più ciò vale per taluni videogiochi, i quali permettono un ruolo attivo da parte del fruitore, nonché l’identificazione nel personaggio violento, così da moltiplicare l’effetto imitativo che può dare origine ai comportamenti aggressivi. Ora, posto che l’esposizione alla violenza dei media, oltre ai potenziali (e di fatto riscontrati) effetti dannosi per terzi (che esulano dal discorso sul paternalismo), ha diffuse conseguenze significative sul benessere psichico e sulla vita di relazione sia di minorenni sia di giovani maggiorenni (che paiono avere interesse a non diventare violenti al di là di quanto decidono), ci si può chiedere se l’intrattenimento violento debba essere comunque protetto in base al rispetto della libertà di espressione. La premessa, come detto, è data dal fatto che la tendenza imitativa sembra funzionare in modo automatico e inconscio, bypassando quindi i processi deliberativi razionali o comunque caratterizzati da un assenso implicito volontario. La violenza "d’invenzione" parrebbe dunque non ricadere sotto i due criteri che militano di solito a favore della libertà di espressione, ovvero quello di verità (che vale per l’informazione, giustificata a mostrare tutto ciò che accade allo scopo di dare una rappresentazione adeguata della realtà) e quello di democrazia (che fa riferimento alla necessità di un pieno dispiegamento dei fatti e delle opinioni rilevanti per il dibattito pubblico). Potrebbero valere allora gli argomenti tradizionali dell’autonomia, ma si è visto che l’esposizione alla violenza mina alla radice proprio l’autonomia del soggetto in virtù dei meccanismi inconsci all’opera, i quali risultano difficilmente riportabili alla consapevolezza e controllabili in modo esplicito. Se il pubblico maggiorenne può liberamente esprimere una preferenza per tali spettacoli, la volontà non pare rispettare o servire gli interessi che rientrano nella sfera dell’autonomia, soprattutto quando le preferenze sono alimentate e manipolate da potenti interessi economici tesi a creare un mercato dei media violenti. E ciò vale ancora di più per i minorenni. La questione empirica è se alcune influenze possano essere così pervasive da compromette effettivamente l’autonomia dei soggetti. La questione filosofico-giuridica è se, a quel punto, sia giustificabile una limitazione nell’ambito così delicato e decisivo della libertà di espressione. I giudici americani hanno ritenuto che le prove scientifiche non siano persuasive (o, meglio, le hanno trascurate, affermando in maniera po’ ingenua che anche nelle favole vi sono scene di violenza), e hanno potuto così preservare la purezza del principio. Che però non pare affatto immune dalle considerazioni che le risultanze sperimentali, almeno per i bambini, ci stanno mettendo di fronte.