La storia bussa di nuovo alle porte dell’Italia. La nostra posizione geografica è tornata in questi mesi a essere strategica. Siamo nel cuore di quel Mediterraneo rimessosi improvvisamente in movimento con la "primavera araba". La guerra di Libia, che ne è una delle conseguenze, si combatte a pochi chilometri dalle nostre coste, a cent’anni esatti dall’attacco coloniale italiano. L’Italia è, insomma, geopoliticamente in prima linea.Questo scenario, che ad alcuni appare una condanna, in verità rappresenta una chance. Dopo aver lamentato il mancato coinvolgimento nei contesti decisionali internazionali e nei vari gruppi di contatto, marginalizzata dalla trasformazione del G8 in G20, l’Italia conosce oggi l’occasione irripetibile di un protagonismo europeo nella partnership con il mondo nordafricano alla ricerca di nuovo slancio e prospettive. Le vicende dei nostri dirimpettai, sebbene diverse da Paese a Paese, costituiscono infatti nel loro insieme un fatto storico. Le giovani generazioni fanno vacillare regimi autoritari senza futuro. Presto ci confronteremo con Paesi più autonomi, desiderosi di contare e determinare il proprio destino.Dietro questo grande cambiamento non si cela un complotto islamico fondamentalista: l’alternativa "o noi o il caos", propinata per anni dai regimi autoritari come alibi per la sopravvivenza, non è più credibile. Nelle piazze arabe è emerso il protagonismo di una nuova generazione che chiede e crede nella democrazia. Saranno forse democrazie "all’araba", con tratti diversi dalla nostra, ma senza intenti aggressivi. I segnali contraddittori non mancano e talune preoccupazioni sono legittime, ma la cifra evidente degli avvenimenti è positivamente ricca di futuro e per renderla "indelebile" noi italiani – da partner attenti e rispettosi – possiamo e dobbiamo dare uno speciale contributo.Ma ci stiamo preparando a questa svolta? La domanda sorge osservando la confusione e l’improvvisazione con le quali l’Europa si è mossa davanti alla "primavera" del Nord Africa e alla crisi libica. Una cosa è certa: il vento di Tunisi non si fermerà. Soffia sui Paesi arabi, e ha già raggiunto l’Africa subsahariana: il Mozambico, il Burkina Faso, il Senegal. Un grande sommovimento è in atto e il Vecchio Continente deve saperlo affrontare unita. L’Italia, punta avanzata dell’Europa nel Mediterraneo, ha la possibilità di guidare la riflessione. E di avviare un grande e "produttivo" dibattito sugli sconvolgimenti geopolitici in atto. Chiudersi nella paura e nel sospetto non sarebbe una buona politica. Abbiamo invece l’opportunità di riformulare quel progetto mediterraneo ed euroafricano che nel dopoguerra costituiva un pilastro della costruzione dell’unità europea.Da parte italiana giungono segnali positivi, come il riconoscimento del Consiglio di Tunisi e la nuova veste voluta per il comando delle operazioni in Libia. L’impulso iniziale francese, se ha avuto il merito di evitare il massacro a Bengasi, non è parso mai accompagnato da un serio programma politico. Andrebbe ora messa in campo un’iniziativa che proponga un assetto nuovo per quell’importante Paese nordafricano, poiché nessuno dei due contendenti (vecchio regime e nuovi democratici) sembra avere la forza militare sufficiente per imporsi definitivamente sull’altro, e il tentativo turco di mediazione non offre, secondo il Consiglio di transizione, «garanzie sufficienti».Resta, poi, aperta la grande questione dell’immigrazione, su cui questo giornale non cessa di concentrarsi. I racconti dei sopravvissuti alla tragedia del recente naufragio, hanno portato alla luce le drammatiche situazioni che costringono giovani eritrei, somali e di altri Paesi alla fuga. Se si vuole fermare l’esodo, quelle realtà vanno cambiate, anche attraverso un maggiore investimento nella cooperazione con l’Africa. Tuttavia – e qui la nota negativa – l’Italia è ulteriormente precipitata nella lista dei Paesi donatori per l’aiuto pubblico allo sviluppo. Dati resi noti in questi giorni ci danno penultimi, con appena lo 0,15% del Pil destinato ai programmi di cooperazione. Mai in passato eravamo stati così avari e lontani dagli impegni da noi stessi assunti. Oltre alle questioni etiche che questa situazione pone, va notato che non è in questo modo che l’Italia può rispondere all’attuale sfida storica. Il nostro Paese ha bisogno di mezzi e risorse per la sua politica estera, per essere presente nell’area del cambiamento con un profilo adeguato e una visione per provare a indirizzarlo. Altrimenti, perderemo il treno della storia, che – come forse non speravamo più – sta nuovamente passando anche per noi. Sulle rive del Mediterraneo.