Lo avevano chiamato l’ «anno dell’Africa», era il 1960. Nel mese di agosto di cinquant’anni fa, infatti, veniva proclamata l’indipendenza di gran parte dei Paesi dell’Africa occidentale ed equatoriale francesi: Dahomey (chiamato poi Benin), Niger, Alto Volta (oggi Burkina Faso), Costa d’Avorio, Ciad, Centrafrica, Congo Brazzaville, Gabon e Senegal. Tutto avvenne tra il primo e il 20 agosto 1960. In settembre si aggiunse il Mali, a chiudere la lunga lista di proclamazione d’indipendenza iniziata in gennaio dal Camerun, seguito in aprile dal Togo e a giugno da Madagascar e Congo belga (l’attuale Repubblica Democratica del Congo). Per tanti africani iniziava un tempo nuovo. L’entusiasmo fu enorme. Tutto sembrava possibile per i nuovi Stati: il "popolo nero" diveniva artefice del proprio destino e assumeva un peso rilevante nella famiglia delle nazioni. Il "sole delle indipendenze" suscitò grandi aspettative, dopo che già la Guinea, nel 1958, aveva sorpreso il mondo votando "no" al referendum con cui il presidente De Gaulle proponeva l’associazione a una inedita Communauté Française. Nel corso della cerimonia di indipendenza del Congo, il 30 giugno 1960, il nuovo primo ministro, Patrice Lumumba, osò affermare davanti a uno sconcertato Baldovino, re dei Belgi: «Abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti, le botte, perché eravamo negri». Una ventata di orgoglio ed esultanza percorse il continente, che danzò al ritmo di Indépendance cha cha, la canzone del congolese Grand Kallé che divenne il tormentone di quell’estate africana di felicità. Cinquant’anni dopo, la ricorrenza di quegli eventi si celebra in un clima di malinconia e di dubbi: il bilancio che l’Africa indipendente presenta non corrisponde alle attese. I festeggiamenti si svolgono dovunque in sordina, quasi a voler dimenticare le speranze degli inizi. E in solitudine: non vi partecipa nessun capo di Stato occidentale, ad eccezione del re dei Belgi Alberto, presente ma silenzioso alla cerimonia di Kinshasa. L’Africa non va più di moda. Negli ultimi due decenni il continente è apparso come il grande malato del mondo, con le sue troppe guerre, pandemie, povertà. Intanto, la corsa all’accaparramento delle sue risorse prosegue senza sosta, con nuovi attori asiatici a sfidare gli europei. Ma la percezione generale è di un’Africa fanalino di coda, «ultimo miliardo», che a fatica si misura con la sfida dello sviluppo. Il cinquantesimo non pare una ricorrenza felice nemmeno agli africani, che hanno in parte assimilato una visione pessimistica sul loro continente. A livello internazionale si è diffusa una mentalità afro-pessimista.In realtà, questo primo mezzo secolo di indipendenze africane ha significato tanto. Anzitutto esse hanno restituito la dignità negata a popoli sempre considerati inferiori. Mezzo secolo di indipendenza significa un cammino irto di ostacoli: prima la guerra fredda, poi l’avvento del neoliberismo selvaggio, e ora lo stato di guerra del sistema di commercio globale. L’Africa ha dovuto cambiare più volte, imparando a nuotare nel mare agitato di una politica internazionale sempre più precipitosa, e di uno sviluppo economico troppo rapido. E l’uomo africano è spesso sembra spaesato di fronte a questi ritmi vorticosi.Seppure confrontato a sfide enormi, lo Stato africano non si è però dissolto, e il continente si è dotato di un strumento politico fondamentale: l’Unione Africana. Gli africani hanno trovato la forza di risollevarsi da terribili calamità. Le cifre della crescita lasciano sperare. Forse, quello che è mancato all’Africa, e manca ancora, sono dei veri partner, interessati non solo alle sue risorse ma anche alla sua gente. A cinquant’anni da quella svolta storica è tempo che l’Europa si guardi allo specchio e riscopra, se non il debito che ha contratto, almeno la missione storica nei confronti di questo continente così prossimo.