Opinioni

Restano soprattutto i nodi ricerca e Atenei non statali. Finalmente si sta aprendo il «cantiere Università»

Giuseppe Dalla Torre venerdì 30 luglio 2010
Il disegno di legge sull’ Università, approvato dal Senato, viene a colmare un divario apertosi in modo progressivo nell’ultimo ventennio e, al tempo stesso, ad aprire gli orizzonti per un necessario, profondo rinnovamento del sistema universitario nazionale. Perché alle pur impegnative riforme introdotte, dagli anni Novanta a oggi, sia in tema di autonomia delle istituzioni universitarie sia in tema di innovazione dell’offerta formativa e della didattica, non era sin qui seguito un coerente rinnovamento dell’organizzazione degli Atenei e delle norme relative al personale ricercatore e docente. Gli elementi strutturali portanti e le disposizioni basiche sul personale risalivano almeno alla riforma del 1980. In sostanza l’Università, a causa di apparati normativi non coerenti, si è trovata a dover camminare a due velocità, nonostante le rapide trasformazioni del nostro tempo, che impongono capacità di pronto adeguamento. Da questo punto di vista il disegno di legge contribuisce a colmare un divario, anche se non lo elimina del tutto.Ma il testo della riforma può – e deve – essere letto anche come una grande opportunità per un salto in avanti del sistema, sia sul terreno della formazione sia su quello, essenziale e presupposto, della ricerca, verso obbiettivi di efficienza ed efficacia, di competitività a livello internazionale, di trasparenza e promozione del merito. Errerebbe ovviamente, chi ritenesse che, una volta approvato definitivamente e divenuto legge il testo ora licenziato dal Senato, tali obbiettivi sarebbero ormai colti. Molta strada c’è ancora da percorrere per armonizzare l’intero sistema universitario in tutte le sue componenti e funzioni; del resto, lo stesso disegno di legge Gelmini prevede una serie di interventi legislativi e amministrativi di attuazione delle norme-principio ora delineate. D’altra parte appaiono scoperti settori importanti e qualificanti l’Università, quale quello della ricerca, che solo marginalmente la riforma tocca, laddove tratta del reclutamento del personale universitario. Senza contare poi il fondamentale capitolo delle risorse, che si è volutamente accantonato per il momento, ma con la promessa, più volte ripetuta, che fatta la riforma si sarebbe dato mano al finanziamento. Si tratta ovviamente di un capitolo fondamentale, perché senza benzina una macchina per quanto perfetta non funziona; e d’altra parte è arcinoto che il nostro Paese non brilla in tema di finanziamento dell’Università, in rapporto a  quanto accade altrove.Gli elementi maggiormente positivi della riforma mi sembrano quelli relativi alla governance, dove ad un certo irrigidimento di modello corrisponde però la possibilità di sperimentazioni definite tramite accordi programmatici col Ministero; la razionalizzazione dell’offerta formativa grazie anche alla possibilità di processi di federazione e fusione tra Atenei, purché questa sia vista nella prospettiva dell’aumento di massa critica, premessa per una maggiore competitività; l’istituzione del fondo per il merito, diretto a promuovere l’eccellenza tra gli studenti a livello nazionale; la valorizzazione e qualificazione  delle attività didattiche e di ricerca del personale accademico, in un’ottica che vuole premiare chi effettivamente si impegna; una più accurata disciplina del reclutamento del personale accademico, strutturata su un doppio vaglio nazionale e locale, che dovrebbe permettere di scegliere i migliori.Certo non mancano punti problematici: soprattutto la questione dei ricercatori a tempo indeterminato, che si vedono obbiettivamente penalizzati sul piano economico e minacciati nelle giuste aspirazioni verso più elevate qualifiche. Rimane poi la questione delle Università non statali, solo in parte toccate dalla riforma, ma pesantemente penalizzate negli ultimi anni sia sul piano dei finanziamenti pubblici (i tagli nei loro confronti sono stati assai più consistenti di quelli, pur dolorosi, fatti alle Università di Stato), sia sul piano della più larga autonomia, che è richiesta dalle loro origini e ragione della loro stessa esistenza. Una volta chiuso il capitolo della riforma Gelmini, occorrerà necessariamente aprire questo secondo, anche perché si tratta di una realtà che costituisce ormai un quinto del sistema universitario nazionale.